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Aldrovandi, ora giustizia è fatta.

07-10-2009 / A parer mio

di Giuseppe Fornaro

Ora sì, possiamo dirlo: finalmente giustizia è fatta. Il deposito delle motivazioni della sentenza di condanna, emessa a luglio scorso nei confronti di quattro agenti di polizia in servizio alla questura di Ferrara che il 25 settembre 2005 causarono la morte di Federico Aldrovandi, restituisce verità e giustizia, al di là della pena, alla famiglia di Federico in primo luogo e a tutta la città e alle istituzioni.
Le motivazioni del giudice Francesco Maria Caruso (scaricabili in versione integrale dal sito della mamma di Federico http://federicoaldrovandi.blog.kataweb.it/) sono un'opera poderosa, 567 pagine di ricostruzione dei fatti e del dibattimento scritte in tre mesi con una chiarezza narrativa, una limpidezza espositiva cristallina in un linguaggio accessibile a tutti e non solo agli addetti ai lavori azzeccagarbugli del diritto. Da questo punto di vista queste motivazioni sono una vera e propria pratica di democrazia nel momento in cui garantiscono pari opportunità di accesso intellegibile a tutti affinché l'opinione pubblica possa formarsi un proprio libero convincimento sui fatti.
Leggendo le motivazioni non verrà meno il dolore per la perdita di Federico, ma ci si scalderà il cuore all'idea che l'indipendenza della magistratura e la separazione dei poteri sono garanzia in questo paese del fatto che la giustizia può ancora esercitarsi veramente "nel nome del popolo italiano". Infatti, proprio l'assenza del magistrato sul luogo del delitto, che avrebbe rappresentato quell'indipendenza e quella terzietà necessaria allo svolgersi delle indagini, ha determinato il corso iniziale del procedimento penale e l'ipotesi accusatoria. Scrive il giudice: "L'indagine nasce, quindi, con un vizio di fondo che si concreta nel paradosso dei principali indiziati di un possibile grave delitto che indagano su loro stessi, come se il gioielliere che ha sparato sul ladro in fuga fosse autorizzato a indagare sull'effettiva consistenza dell'invocata legittima difesa. Un paradosso che il semplice senso comune avrebbe dovuto prevenire. Da qui la strada in salita dell'accusa privata e lo sforzo che essa ha dovuto profondere per far cambiare di segno all'indagine". Parole pesanti e nello stesso tempo chiare e nette, senza possibilità di equivoco.
Non basta. Più oltre il giudice dice: "sono stati padroni del campo del delitto per tutto il tempo necessario allo svolgimento delle prime sommarie indagini e all'indirizzo investigativo che si è ritenuto di dare alle stesse, il che da un lato non può non lasciare perplessi e dall'altro giustifica le proteste e i dubbi della parte civile e rende legittima la scelta di reazione a tale stato di fatto, consistita nell'accendere un'attenzione continua e costante dell'opinione pubblica sull'avvenimento, considerato paradigmatico di un certo modo di svolgere le indagini quando siano coinvolti in esse soggetti, organi e apparati dello Stato, a partire dall'apertura di un blog per tenere alta l'attenzione e la tensione pubblica sullo sviluppo delle indagini".
Per essere ancora più chiaro Caruso, che si è formato il libero convincimento che al primo pm non siano stati forniti gli elementi utili per una valutazione oggettiva sull'intervenire o meno sul posto accreditando l'ipotesi di una morte per malore (cosa che sarebbe stata immediatamente smentita da una ispezione visiva al corpo di Federico), arriva ad affermare che tutto ciò "lascia pensare che in realtà quella presenza sul posto non fosse affatto gradita".
Infatti, la mattina del 25 settembre di quattro anni fa in via Ippodromo c'erano tutti i vertici della polizia, dal vice questore Sidero al responsabile dell'Upg Marino che non avevano titolo ad essere lì per indirizzare le indagini, il cui compito, semmai, spettava alla squadra mobile, tanto più se, come hanno sempre sostenuto, si trattava di una morte da excited delirium syndrome.
Paradossalmente, i quattro agenti coinvolti nei fatti, anziché essere ascoltati come indiziati di reato per una lunga fase delle indagini "hanno fornito elementi valutati come informazioni oggettive". Insomma, la loro versione dei fatti per un lungo periodo è stata la versione ufficiale della questura. Basti sfogliare i giornali dell'epoca per trovare conferma. Anzi, chi osava mettere in dubbio quella versione si è beccato le querele fino al punto di richiesta di acquisizione dei documenti dalle redazioni dei giornali di mezza Italia da parte dell'autorità giudiziaria. Un fatto con pochi precedenti, se non negli anni più bui nella storia di questo paese.
La chiarezza espositiva di Caruso non solo rende un servigio alla democrazia, ma dal punto di vista processuale sbarra la strada al ricorso in appello da parte degli imputati. Non vi sono ambiguità nell'esposizione del giudice di primo grado, non vi sono possibilità di interpretazioni arbitrarie del suo giudizio, non vi sono scappatoie. Per questo per i quattro imputati sarà arduo ribaltare il giudizio di primo grado. Anzi, il giudice Caruso prospetta l'ipotesi che il reato possa configurarsi non come colpa lì dove afferma: "Assumere come ipotesi da verificare una colluttazione protrattasi per così lungo tempo (si riferisce alla frase pronunciata da uno degli imputati: "l'abbiamo bastonato di brutto per mezz'ora, ndr) e conclusasi con la morte potrebbe anche rimettere in discussione l'inquadramento giuridico della condotta e la sua configurazione in termini di sola colpa". Un'indicazione che i giudici d'appello non potranno non vedere.

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