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Da Ferrara a Idomeni e ritorno

20-04-2016 / A parer mio

di Grazia Satta *

 

#Idomeni #overthefortress

Ho visto campi profughi palestinesi e campi profughi iracheni in Siria quando la Siria esisteva.

Oggi non so più cosa sia rimasto del paese che ho visitato qualche anno fa.
Ogni campo ha la sua storia, i suoi abitanti, i "quartieri", la sua umanità che esiste e resiste.

Idomeni è un'altra cosa. E' un campo in movimento anche se fermo da mesi, disperato, ma proiettato in avanti, smarrito nella via che intende proseguire con determinazione infinita.
E' un punto nel mondo carico di tanti simboli: una ferrovia che collega Salonicco in Grecia con Belgrado in Serbia, teatro nel passato di rivolte contro l'impero Ottomano, di conflitti greco bulgari e ora punto di arresto di 15000 profughi che chiedono di entrare in Europa.
Una rotta importante quella attraverso la Macedonia perché permette ai richiedenti asilo di uscire dalla UE e in caso di respingimenti non si troverebbero respinti in un eterno ritorno in Grecia.

Un luogo che ha fatto di un immobile nomadismo la sua peculiarità.

Siamo partiti il 25 marzo e dopo aver navigato per sedici ore da Ancona a Igoumenitsa e viaggiato in autobus per quattro, raggiungiamo il campo di Idomeni.
I campi profughi nella zona sono tanti. Gocciolano spontaneamente di arrivi continui. Idomeni però è il simbolo, quello dove sono accesi i riflettori e che non deve sparire se non perché si è trovata una soluzione umana al problema.

Siamo 250 dall'Italia, diventeremo circa 300 con l'arrivo di volontari dalla Grecia stessa e da altre parti d'Europa.

Ci muoviamo con due pullman, quattro van, due furgoni pieni di aiuti: scarpe, vestiti, medicine, pannolini, coperte...

Siamo visibilissimi con tutte quelle pettorine arancione con i catarifrangenti!

Il campo ha un'identità, un non so che di spontaneo e strutturato insieme. Si riconoscono dei "vicinati", delle appartenenze, un ritmo di vita che l'uomo sembra non poter dimenticare anche nelle situazioni più estreme. Qualcuno che c'è già stato ci indica il quartiere dei combattenti, di quelli che fanno sentire più spesso voci di rabbia e disperazione. Sono quelli che hanno piantato le tende sui binari della ferrovia.

Una ferrovia ferma, la cui stazione inutile e qualche vagone abbandonato offrono rifugio per la notte ai più fragili di loro.

Un elicottero della polizia volteggia su di noi per un po'. Si è sparsa voce che sia arrivato un contingente di facinorosi che avrebbe aiutato i profughi a tagliare il filo spinato del confine.
Quei facinorosi saremmo noi!
In nostro onore vengono bruciati litri di carburante e di euro inutilmente, visto che le armi di cui siamo forniti sono soprattutto grandi pacchi di pannolini per bimbi e...scarpe!
La polizia controlla che dei volontari non siano o diventino un pericolo in un campo di profughi costituito per la maggior parte di popolazioni civili in fuga dalla guerra!

C'è qualcosa di assurdo che tristemente riporta al nazismo, quando essere umani era un reato.

Benvenuti a Idomeni! Sì siamo i benvenuti. Entriamo nel campo con la paura di noi stessi, delle nostre reazioni, soprattutto dell'inadeguatezza delle nostre reazioni emotive. Un misto di senso di colpa e frustrazione. Ma chi ci viene incontro ci sorride, ci accoglie, ci ringrazia per la sola presenza e ci chiede di raccontare. Le foto sono utili per rivelare: sono una testimonianza, non un'intrusione.
Parliamo, ci abbracciamo, qualcuno piange. In un inglese essenziale si sente dire in continuazione:
- How come you from? -
From Italy! -
Thank you! -

Qualcuno ricrea la socialità di un cortile reinventato attorno ad una tenda

Ci sono stati morti per il freddo quest'inverno. Il campo, quando piove, diventa un pantano di fango. Tutti infatti ci chiedono scarpe. E' duro tenere i piedi bagnati. Le scarpe non asciugano mai e il freddo, anche alla fine di marzo, si fa sentire. occorrono tante scarpe per non ammalarsi e per sognare di riprendere il cammino.

Le scarpe non servono a chi arriva al mondo!

Sono attratta da un'animazione particolare attorno ad una tenda. Gli uomini seduti da una parte parlano e fumano, i bambini più piccoli sono seduti tranquilli, le ragazzine più grandi fanno capannello per conto loro, una donna protegge con una coperta l'ingresso di una tenda, un'altra tiene a bada un fuoco sul quale si scalda dell'acqua. La barella arancione che è adagiata per terra in un primo momento mi fa pensare al malore di qualcuno. Chiedo cosa stia succedendo. Una delle donne riesce a spiegarmi che sta nascendo un bambino. Gli operatori di Medici senza Frontiere assistono la partoriente in ginocchio. Quella che io immagino essere una nonna protegge l'intimità che merita l'evento.

Nasce un maschietto! I sorrisi rimbalzano sui volti di tutti quelli che siamo presenti.

Una bambina versa sulle mani schiuse a mo' di cucchiaio di un'altra bimba un po' di zucchero. Il piccolo corteo dei festeggiamenti offre un assaggio di quel semplice dolce.

Il giorno dopo, Pasqua, cerchiamo di ritornare al campo, ma un mezzo della polizia greca messo di traverso sulla strada ce lo impedisce. L'attesa durerà quattro ore circa. Ci dicono che hanno ricevuto l'ordine di bloccarci per tutelarci in quanto all'interno del campo c'è un forte stato di agitazione.
Non è vero. Una quindicina di noi che sono arrivati prima e probabilmente, grazie al numero esiguo, sono stati lasciati passare ci comunicano via telefono che all'interno del campo è tutto tranquillo.
Siamo sempre più confusi. Probabilmente ha continuato a circolare l'informazione che ci definiva facinorosi!

Avanziamo e ci sediamo davanti allo schieramento in assetto anti sommossa e apriamo qualche pacco.
Pannolini, scarpe, medicine, indumenti si materializzano inutilmente tra noi e loro.

Entriamo nel primo pomeriggio e finalmente potremo distribuire gli aiuti. Non è semplice farlo. Le persone si accalcano davanti ai furgoni.
Chiedono scarpe. Accettano tutto. Ci sono attimi di serenità: qualcuno sceglie, misura, sorride quando trova qualcosa che va bene.



I bambini sono i più difficili da gestire. Non si può resistere al richiamo di un gioco. Non si possono trattenere. Vengo travolta e buttata a terra. Rido, ridiamo. E' il segno di una vitalità capace di dimenticare ed abbracciare il futuro.

I campi inutilmente coltivati sono l'ultimo rotolamento del territorio greco. Qualcuno cammina su quei campi. In fondo le colline sono già Macedonia.

Arriva la sera. L'accampamento non ha luci. Si accendono fuochi. Il freddo si fa ancora sentire e il tepore di una fiamma può consolare un attimo.
Noi andiamo via. Ci aspetta una manifestazione a Patrasso il 28 marzo poi il ritorno in Italia.

 

 


Oggi (11 aprile 2016), sappiamo che le cose laggiù sono andate avanti nel bene e nel male: gli artigiani, quelli di noi bravi come genieri costruttori, hanno montato il gazebo e predisposto un gruppo elettrogeno per l'illuminazione delle zone WC, allestendo anche una postazione internet fondamentale per i contatti sparsi nel mondo. Sono ancora lì e costituiscono il segmento di una staffetta dei centri sociali del nord-est fissa nel campo di Idomeni. Un tentativo di superare la frontiera non ha fatto esitare la polizia macedone ad usare lacrimogeni e proiettili di gomma che hanno colpito anche bambini.

 

 

 

Grazia Satta

* docente di scuola Secondaria di secondo grado impegnata in progetti di intercultura con associazioni del territorio

 

 

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