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"Sovranismo e sovranismi" secondo diritto, economia e politica

22-05-2018 / A parer mio

a cura del Dipartimento di Giurisprudenza Unife

Lunedì 28 maggio (ore 14.30-18.30) e martedì 29 maggio 2018 (ore 9.30-12.30) nella sala consiliare del Dipartimento di Giurisprudenza, in corso Ercole I d'Este 37 a Ferrara, si terrà l'incontro dedicato a "Sovranismo e sovranismi: il punto di vista del diritto, dell'economia e della politica". A parlare saranno Marco Baldassari, Aldo Barba, Silvia Borelli, Giancarlo De Vivo, Carlo Formenti, Massimo Pivetti e Alessandro Somma. L'incontro ha carattere seminariale ed è incentrato sulla discussione dei tre documenti che seguono, pensati per stimolare un vivace dibattito attorno ai tre punti di vista.

Il punto di vista del diritto (Alessandro Somma) .
I.
Il sovranismo può implicare il ritorno di identità forti ed escludenti, di matrice premoderna, incentrate sul tema del sangue e del territorio: è questo il significato che nel discorso pubblico si è soliti attribuire al concetto, ma non è certo l'unico. Sovranismo è anche la difesa dello spazio pubblico, della dimensione politica, della partecipazione democratica e del conflitto sociale: è presidio della sovranità popolare, e con essa dei valori incarnati dal costituzionalismo antifascista.
II. Le costituzioni moderne si occupano tutte di sovranità nello Stato, o sovranità popolare, distinguendola dalla sovranità dello Stato o statale. Per molto tempo ha ciò nonostante resistito il dogma ottocentesco della esclusiva sovranità statale, per cui la sovranità popolare costituiva una mera formula simbolica, priva di valore giuridico. Le cose cambiano solo nel corso degli anni Cinquanta, quando si afferma la distinzione tra Stato-governo e Stato-società, e si precisa che il primo costituisce un'entità al servizio del secondo: è dunque il popolo il titolare della sovranità anche in senso giuridico, mentre l'apparato statale si limita ad attuare gli intendimenti maturati entro la comunità dei governati. Tanto che se lo Stato-governo non rispetta la volontà popolare, lo Stato-società ben può esercitare il diritto di resistenza. Alla contrapposizione di governanti e governati occorre però aggiungere anche quelle tra componenti del popolo, contrapposte in ragione di specifici tratti identitari, come quelli riconducibili al ruolo ricoperto entro il sistema produttivo. La sovranità popolare è cioè radicata in una comunità comprendente entità distinte e contrapposte, come i partiti e le formazioni sorte o emerse dalla loro crisi, tutte investite del diritto di concorrere alla formazione dell'indirizzo politico ben oltre il momento elettorale. E siccome la contrapposizione concerne in ultima analisi la diversa forza sociale delle diverse entità, l'esercizio della sovranità presuppone, oltre alla libertà, l'uguaglianza dei cittadini, e a monte un ruolo attivo dei pubblici poteri chiamati a rimuovere gli ostacoli alla sua realizzazione. Altrimenti detto, l'esercizio della sovranità presuppone, oltre alla libertà e all'uguaglianza, anche la solidarietà: fuori dal mercato, da esprimere con gli strumenti dello Stato sociale, ma anche nel mercato, dove la debolezza sociale deve essere bilanciata dalla forza giuridica. Anche per questo l'esercizio della sovranità popolare passa dalla valorizzazione del lavoro in quanto fonte di uguaglianza e libertà, e dunque della democrazia economica. Ovvero dalla partecipazione diffusa alla vita economica attraverso la programmazione realizzata a livello parlamentare, ma anche con il coinvolgimento dei lavoratori, e non solo di essi, nelle scelte aziendali.
III. Lo Stato moderno nasce come Stato assoluto, del quale il popolo rappresenta semplicemente un elemento costitutivo, essendo l'esercizio della sua sovranità ridotto a una mera funzione: quella concernente l'elezione del parlamento, i cui poteri derivano dall'essere un organo statale. Le cose cambiano solo in parte con l'affermazione dello Stato di diritto, che mira a istituire un governo degli uomini in luogo del governo delle leggi, e quindi a porre primi condizionamenti all'esercizio della sovranità: non ancora riconosciuta al popolo, ma se non altro limitata a suo favore. Lo Stato di diritto non rappresenta però un argine contro gli arbitri delle maggioranze contingenti. Questo è l'obiettivo dello Stato costituzionale, nel quale occorrono maggioranze qualificate per modificare le regole relative all'esercizio della sovranità, che oltretutto ha nel frattempo cessato di essere solo statale: la sovranità popolare è ora tale anche dal punto di vista giuridico e non solo meramente simbolico. Lo Stato costituzionale consente, in regime di suffragio universale, di delimitare gli arbitri del popolo con riferimento allo sviluppo del sistema delle prestazioni contemplate dallo Stato sociale, ma comunque arricchisce il catalogo delle limitazioni concernenti l'esercizio della sovranità popolare. Essa è infatti vincolata a realizzare la parità sostanziale fuori e dentro il mercato, anche e soprattutto per confermare la centralità dell'uguaglianza in quanto fondamento della sovranità popolare. Con lo Stato costituzionale i diritti fondamentali diventano inviolabili e rappresentano la cornice entro cui si sviluppa il pluralismo cui rinvia il riconoscimento che il popolo comprende centri di interessi in contrasto tra loro, tutti chiamati a concorrere all'esercizio della sovranità popolare e ad animare il pluralismo democratico. Non vi è pertanto motivo di sostenere che essa si risolva in una sorta di dittatura della maggioranza: formula peraltro cara a coloro i quali al principio del Novecento vollero denigrare la democrazia per aprire la strada all'involuzione fascista, successivamente riproposta da chi sostiene l'incompatibilità tra liberalismo e democrazia. Semmai è di dittatura del mercato che occorre parlare: quella indotta dal neoliberalismo che promuove lo scioglimento dell'individuo nell'ordine proprietario e la funzionalizzazione delle sue condotte al mantenimento del principio di concorrenza. A dimostrazione di come la normalità capitalistica possieda una forza attrattiva tale da vanificare il tentativo di costruire un capitalismo dal volto umano, almeno in tutte le ipotesi in cui la sovranità popolare non viene riconosciuta e alimentata come forza emancipatoria da opporre all'ordine proprietario e al principio di concorrenza.

Il punto di vista dell'economia (Aldo Barba)
I. Credo si possa dare per scontato che il campo sia sgombro da tutte le false identificazioni tra sovranismo e forme di ostilità nei confronti degli altri Stati nazionali, popoli o razze, come pure tra sovranismo e più o meno esplicita contrarietà ai principi condivisi di libertà civile e politica. Che il sovranismo sia a tutti gli effetti "costituzionale" è fuori discussione, la nozione traducendosi, nel suo senso più neutro e condiviso, in quella di opposizione alla limitazione della sovranità nazionale. Nulla di eversivo, quindi. Piuttosto l'esatto contrario, dal momento che sovranista è prima di ogni cosa il rifiuto dell'idea che l'esercizio del potere dello Stato possa sottrarsi ai meccanismi della rappresentanza democratica. Ma in quali forme e a favore di chi la limitazione e il trasferimento della sovranità nazionale sono avvenuti? Porre la questione in questi termini significa portarsi su un terreno più controverso, anche tra coloro i quali si professano sovranisti nel senso sopra indicato. Vi è in primo luogo l'idea del trasferimento di poteri e competenze dagli Stati a Bruxelles, spazio in apparenza sovranazionale, in realtà occupato da un altro Stato, la Germania, che di quest'organismo sovranazionale detiene di fatto il controllo, definendone gli indirizzi. Vi è poi l'idea che limiti e vincoli alla sovranità nazionale siano il risultato della mondializzazione, intesa sia come processo di creazione di un mercato mondiale che ha eliminato ogni forma di barriera che delimitava i mercati nazionali, sia come più generale subordinazione degli Stati e le loro norme alle leggi del mercato e della concorrenza liberalizzata. Se si assume il punto di vista del sovranismo antieuropeista, il superamento dei trattati consentirebbe di per sé il recupero della sovranità nazionale. Viceversa, per il sovranismo antimondializzazione, non vi è sovranismo nel mercato mondiale, con o senza Unione Europea. Queste due visioni appaiono sovrapponibili perché le regole dell'UE non sono altro che la "contrattualizzazione" dei principi della libera concorrenza su scala mondiale con la quale gli Stati europei si sono legati gli uni con gli altri. Ma ciò non deve trarre in inganno. L'Unione Europea è il parto più bizzarro e ottuso della mondializzazione ed è impensabile che possa continuare ad esistere se la mondializzazione iniziasse ad arretrare. Non è però vero il contrario. La mondializzazione, e i condizionamenti che essa esercita sul pieno esercizio dei poteri dello Stato, esisterebbe anche se venisse meno il patto di comune adesione ai suoi principi sancito dai trattati europei e dalla moneta unica. Da questo punto di vista, emerge con forza come la limitazione della sovranità nazionale (intesa come possibilità di un pieno utilizzo delle principali leve di politica economica) non presupponga necessariamente un formale trasferimento di poteri e di facoltà decisionali. Per fare un esempio concreto, il Fiscal Compact e i precedenti vincoli a disavanzo e debito pubblico fissati dal Trattato di Maastricht, non hanno negato una sovranità fiscale altrimenti pienamente esercitabile dai singoli Stati. L'utilizzo a fini espansionistici della politica fiscale era già stato compromesso dal regime di libera circolazione di merci e capitali, come pure dall'aver fatto il banchiere centrale autonomo dai governi. In tal senso sovranismo e controlli appaiono due questioni intrecciate al punto di presentarsi come due facce di una stessa medaglia. Negare questo significa viceversa considerare sensato sostenere istanze sovraniste anche in un contesto di relazioni economiche internazionali completamente liberalizzate. Esiste effettivamente la possibilità di un sovranismo senza controlli nelle relazioni con l'estero? In caso contrario, quale regime vincolistico creerebbe il presupposto del recupero del potere economico dello Stato nazione?
II. In parallelo al tema dell'Unione Europea come presunta causa prima della perdita di sovranità degli Stati si sviluppa quello dei soggetti a cui la sovranità è sottratta e dei soggetti che invece la hanno avocata a sé. È questo un punto che difficilmente può essere chiarito muovendo dalla nozione "neutra" di sovranismo come mera opposizione alla limitazione della sovranità nazionale. Un pieno esercizio della sovranità nazionale significa consentire la partecipazione dei ceti popolari alla definizione di un indirizzo politico generale dello Stato che innalzi il raggiungimento del pieno impiego ad obiettivo prioritario della politica economica. È solo quando assume questa connotazione che il recupero della sovranità nazionale acquista un significato non equivoco. Fino a quando il discorso sovranista non si fonde con quello di classe resta un guscio vuoto. Il sovranismo è una condizione necessaria all'adozione di politiche che migliorino il tenore di vita della maggioranza della popolazione. Non una condizione sufficiente. Quested considerazioni conducono in due  direzioni. La prima riguarda la tendenza del sovranismo, soprattutto quello antieuropeista, a ricorrere a formule identitarie che prediligono il riferimento al conflitto tra nazioni piuttosto che al conflitto tra classi. Si perde così di vista il fatto che il recupero della centralità dello Stato è funzionale al poter ricreare solo nel suo perimetro le condizioni per lo sviluppo del conflitto di classe (conflitto di classe e non conflitto tra Stati). Da questa tendenza discende poil'incapacità di sviluppare un discorso relativo non al "sovranismo" ma ai "sovranismi". Gli usi che potrebbero essere fatti di una riconquistata sovranità sono i più vari. Quali sono i diversi sovranismi e cosa li differenzia dal punto di vista delle linee di politica economica che potrebbero essere adottate?
III. Quali che siano le varietà di sovranismo, è fuori di dubbio che la nozione è più vicina alla destra che alla sinistra. Naturalmente non tutta la sinistra è estranea a orientamenti sovranisti (si pensi, per stare all'oggi, alla posizione di Chevenemant in Francia oppure all'embrionico patriottismo costituzionale" in Italia). Tuttavia, il tema della centralità del recupero dei pieni poteri dello Stato nazione in campo economico è nel complesso assente, e oggi nel campo socialdemocratico domina l'idea che la mondializzazione sia un'evoluzione ineluttabile e i richiami "sovranisti" una "fregatura" dalla quale i ceti popolari devono tenersi alla larga. Perché a sinistra è avvenuta questa svalutazione dello Stato?

Il punto di vista della politica (Carlo Formenti)
I. L'idea secondo cui la Nazione preesiste allo Stato è doppiamente mistificatoria: sia se viene usata - da destra - per evocare un concetto "naturalistico" di nazione (sangue e suolo, unità assoluta di cultura, storia, lingua e tradizioni), sia se viene criticata come un "residuo" del passato in nome di quel cosmopolitismo che oggi accomuna, da un lato, il "globalismo" delle élite economiche e politiche mondiali, dall'altro, il "progressismo" delle sinistre convertite al liberismo. Il luogo comune che vede nella fine dello Stato-nazione un passo avanti lungo il cammino storico verso un mondo più libero e pacifico, va smontato mostrando come il vero obiettivo del globalismo non consista nel superare lo Stato-nazione, bensì nel separare i due termini del binomio. Il processo di globalizzazione che ha distrutto le conquiste che le classi subalterne hanno strappato attraverso lotte secolari, sarebbe stato impossibile senza la partecipazione attiva dello Stato, il quale non ha solo consentito, ma promosso in prima persona le "riforme" che ne hanno trasferito le funzioni di regolazione giuridica ed economica e larghe quote delle sue prerogative sovrane a istituzioni sovranazionali come la Ue, il Wto, il Fmi, la Banca mondiale ecc. La de-nazionalizzazione dello Stato è coincisa con la sua depoliticizzazione, o, meglio, con la sua de-democratizzazione, cioè con il divorzio fra capitalismo e democrazia, tenuto conto che la democrazia moderna è stata in larga misura il prodotto di processi costituenti che hanno sancito la natura nazional democratica dello Stato, il suo ruolo di mediazione fra confliggenti interessi di classe (pur senza mettere in discussione l'egemonia della classe capitalistica).
II. L'attuale impasse della globalizzazione ha due volti: da un lato, riflette le difficoltà oggettive di un modo di produzione che, a seguito dei processi di finanziarizzazione e degli effetti della "economia del debito", si dibatte in convulsioni sempre più frequenti e generalizzate, dall'altro, deve affrontare le crescenti resistenze di classi subalterne costrette a subire le disuguaglianze crescenti, lo smantellamento dello Stato sociale, disoccupazione e sottoccupazione di massa e le politiche di austerità dei governi neoliberisti. Queste resistenze, in assenza di efficaci forme di rappresentanza politica degli interessi dei perdenti al gioco della globalizzazione, e in un contesto che vede la disarticolazione della classe operaia e delle classi medio-basse, sempre più individualizzate e stratificate, danno vita a formazioni politiche "populiste" (di destra e di sinistra) che individuano nella riconquista della sovranità popolare e nazionale - nella ricostruzione di un popolo-nazione autonomo, indipendente e in grado di decidere in merito ai propri interessi "locali" - un passaggio obbligato per migliorare le condizioni di vita e di lavoro della maggioranza della popolazione. Le élite globali (di destra e sinistra) combattono questi movimenti evocando, quelle di destra, il pericolo di catastrofi economiche in caso di regressione a economie "chiuse", quelle di sinistra, lo spettro del ritorno di un nazionalismo autoritario, xenofobo e razzista.
III. All'appello "neofrontista" lanciato da destre liberiste e sinistre "clintoniane", occorre contrapporre un rinnovato patriottismo costituzionale, ricordando: 1) che la governance delle istituzioni sovranazionali come la Ue impone che gli stati si adeguino pedissequamente alle regole dei mercati, mentre solo riconducendo i mercati sotto il controllo della politica (e quindi dello Stato-nazione e dei suoi principi costituzionali) è possibile fronteggiare la crisi e restituire al popolo il diritto di decidere del proprio destino; 2) che il cosmopolitismo è un'ideologia che rispecchia gli interessi di una ristretta élite mondiale di privilegiati (che trasmette i propri valori a larghi strati di classe media), mentre la sinistra dovrebbe proteggere gli interessi di quel 97% della popolazione mondiale che vive tuttora nel proprio Paese di nascita, difendere cioè le masse che vivono inchiodate nel territorio di origine dalla predazione delle minoranze che governano i flussi globali di capitali, merci e forza lavoro); 3) che oggi il vero pericolo è il liberismo e non il nazionalismo, anche se vanno contrastate le forme reazionarie che l'ideologia nazionalista può assumere (promemoria: prima della catastrofe nazista, Karl Radek, dirigente della III Internazionale, fu fra i pochi a capire che nessuna rivoluzione democratica - né tanto meno socialista - sarebbe potuta avvenire in Germania se la sinistra non avesse assunto la direzione della lotta per affrancare il popolo dalle indicibili sofferenze generate dalle angherie imposte dalle potenze vincitrici della Prima Guerra mondiale, che avevano ridotto la Germania a semicolonia). 

QUALCHE CITAZIONE
Marx e Lenin sull'Europa
«Le chimere della repubblica europea della pace eterna sotto l'organizzazione politica sono diventate ridicole proprio come le frasi sull'unione dei popoli sotto l'egida della libertà generale del commercio... Indubbiamente esiste una certa fratellanza fra le classi borghesi di tutte le nazioni: è la fratellanza degli oppressori contro gli oppressi» (K. Marx, F. Engels, Opere complete, vol. 6, Editori Riuniti, Roma, 1973, pp. 5-6).
«Gli Stati Uniti d'Europa in regime capitalistico sarebbero o impossibili o reazionari» (V. I. Lenin, Opere complete, vol. 21, Editori Riuniti, Roma 1966, p. 311).

Gramsci sul cosmopolitismo (e sul rifiuto che termini come sovranità e nazione suscitano negli intellettuali italiani)
«Un altro termine da esaminare è il così detto "internazionalismo" del popolo italiano... Si tratta in realtà di un vago "cosmopolitismo" legato a elementi storici ben precisabili: al cosmopolitismo e universalismo medioevale e cattolico, che aveva la sua sede in Italia e che si è conservato per l'assenza di una "storia politica e nazionale" italiana. Scarso spirito nazionale e statale in senso moderno» (A.Gramsci, Quaderno 3, vol. 1, Einaudi, Torino, 2014, p. 325).
«Che certi termini abbiano assunto questo significato deteriore non è avvenuto a caso. Si tratta di una reazione del senso comune contro certe degenerazioni culturali. Ma il "senso comune" è a sua volta il filisteazzatore, il mummificatore di una reazione giustificata in uno stato d'animo permanente, in una pigrizia intellettuale altrettanto degenerativa e repulsiva del fenomeno che voleva combattere» (A. Gramsci, Quaderno 8, vol. II, Einaudi, Torino, 2014, p. 959)
«In Italia il termine "nazionale" ha un significato molto ristretto ideologicamente e in ogni caso non coincide con "popolare", perché in Italia gli intellettuali sono lontani dal popolo, cioè dalla "nazione" e sono invece legati a una tradizione di casta, che non è mai stata rotta da un forte movimento politico popolare o nazionale dal basso» (A. Gramsci, Quaderno 21, vol. 3, Einaudi, Torino, 2014, p. 2116).

(A cura dell'Università di Ferrara - Dipartimento di Giurisprudenza)

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