La segnalazione: La sera andavamo al "Moka". Storia di ferraresi di Gianni Goberti
02-10-2006 / A parer mio
di Giuseppe Muscardini
Gianni Goberti viene dalla poesia. E si sente, perché in questa raccolta le storie si alimentano più del compiacimento della parola che dell'evolversi di un compiuto fatto narrativo. Ma parola sempre esatta, studiata e scelta per stupire il lettore facilmente distratto e perso nella ricerca di una trama che spesso non c'è, volutamente snobbata dall'autore. Facendo mancare una vera trama a molti dei suoi racconti, Gianni Goberti lancia un messaggio con la stessa dignità e onestà con cui uno dei suoi personaggi femminili annuncia di andarsene a fumare l'ultima sigaretta, prima di una scelta drammaticamente risolutiva. Il messaggio di Gianni Goberti non è banalmente riconducibile ad un tema svolto attorno ai protagonisti, ma attorno alle situazioni. La sua è in effetti narrativa di situazione, capace di ricreare nel lettore stati d'animo di natura onirica, sempre a metà fra parvenza e realtà, spesso fra vita e morte. Situazioni che sul piano della scrittura evolvono in piccole perle, e il lettore riceve da una parte un senso di inquieto coinvolgimento emotivo, e dall'altra la consapevolezza di un registro linguistico ibrido, usato allo scopo di far incontrare poesia e narrativa. Solo prendendone atto, i "corti" di Goberti acquistano la giusta valenza espressiva che meritano, rendendoci familiari le figure uscite dalla sua penna, siano queste autentiche o di fantasia.
Gli aspetti "macabri" della sua prosa, presenti già nel racconto di testa che dà il titolo al volume, anche non volendo, anche provando a liberarci degli ascendenti letterari della generazione di Goberti, conducono alla prosa teatrale di Friedrich Dürrenmatt; ma soprattutto, per dare fisica fisionomia alla miriade di personaggi che popolano le 64 pagine della raccolta, conducono alle opere di Varlin, artista elvetico vissuto per lunghi periodi a Portogaribaldi e molto apprezzato da Giovanni Testori. Anche Goberti tratteggia figure che si dibattono fra pulsioni di vita e pulsioni di morte, tra morti che ritornano vivi e vivi che vengono dalla morte, usando la forza della pennellata rapida eppure materica, lasciando tracce potenti sulla carta, come Varlin le lasciava sulla tela. Ne escono figure sanguigne, che incarnano una generazione irrequieta, ma dotata di quell'umanità grande di cui si serve il leggendario Montini, nato dalla penna di Goberti. Ha il nome di un papa ma è comunista, è caporeparto alla mitica Montedison, è una sorta di orco temuto dai compagni, incapace di far uso di formule di cortesia o di civili convenevoli, ma paterno e premuroso verso chi si avvicina alla sua tana, perché sa, lui, già minato nel fisico dalle polveri chimiche, quanto sia a rischio la salute di chi decida di varcare il suo antro infernale. Tanti all'epoca erano così, sembra dirci Goberti, nascondevano un animo tenero, che la difficile vita della fabbrica non è mai riuscita ad intaccare. L'autore ci riporta alla perduta umanità di un tempo recente, lasciando intendere che di sé, in queste pagine, c'è quanto basta per poter parlare di nostalgia, più che di autobiografia. Del resto lo dichiara nell'iniziale Intervista allo specchio, nell'immaginaria situazione di doversi rispondere da solo: «Forse è così che certi racconti sono nati», ammette. Finalmente un narratore sincero.
G. GOBERTI, La sera andavamo al "Moka". Storia di ferraresi. , Ferrara, Tipolitografia Sivieri, 2006