La segnalazione: La mia rivoluzione. Da Budapest 1956 all'Italia di Ivan Plivelic
13-11-2006 / A parer mio
di Giuseppe Muscardini
È difficile parlare di questo libro dopo che Gianna Vancini, nella recensione apparsa nell'ultimo numero de «L'ippogrifo», ne ha sapientemente scandagliato il contenuto. Le sue considerazioni sono talmente convincenti che poco altro ci sarebbe da aggiungere su La mia rivoluzione. Da Budapest 1956 all'Italia. Se chi scrive non avesse conosciuto il progetto di Ivan Plivelic fin dall'inizio, eviterebbe di spendere altre parole, ma implicitamente coinvolto da un immeritato ringraziamento a pagina 4, ritiene di affiancare con umiltà il proprio giudizio a quello di altri che prima, durante e dopo la presentazione del libro alla Biblioteca Ariostea di martedì 24 ottobre, si sono benevolmente pronunciati. Si accoda pertanto agli interventi di Anna Maria Quarzi, Direttore dell'Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara, di Giorgio Rossi, esperto di storia militare e di Gianna Vancini, presidente del Gruppo Scrittori Ferraresi.
Ivan Plivelic ha saputo sfruttare con mirabile tempismo una ricorrenza che conferisce all'impresa editoriale significato storico e celebrativo. A cinquant'anni esatti dalla rivoluzione di Budapest del 1956, puntualmente esce in libreria questo libro sui generis, a metà fra ricostruzione storica e biografia, accattivante nei contenuti, semiserio talvolta nei toni, ma frutto di riflessioni attente sulla vita, gli eventi, la storia, il destino. Si è dato grande rilievo nel mese scorso alla celebrazione del cinquantenario della rivoluzione ungherese: i media hanno diffuso e replicato a lungo servizi televisivi e documentari sulle vicende dell'ottobre del Cinquantasei, quando gli ungheresi reagirono alle pretese egemoniche del grande colosso sovietico, che secondo gli accordi di Yalta consolidava la sua oppressiva "giurisdizione" ad Est.
Plivelic nasce ungherese, ma è ferrarese di adozione. Ferrara lo "adotta" dopo le molte peripezie che seguono i tragici eventi di Budapest, ben documentati nel libro e con valore di antefatto. È la sua storia, la storia di un uomo che partecipa con passione civile (e un poco giovanilista) ai fatti del suo tempo, della sua terra, della sua città. Ne esce il quadro storico dell'epoca, ma anche una propulsiva volontà di indagare dentro se stesso, alla luce di quei fatti.
Si ha l'impressione che la rivoluzione di Plivelic riguardi anche quella che non si è svolta solo dietro le barricate, sparando colpi dall'angolo di una strada, o frantumando a colpi di martello il busto di Stalin, o ancora abbattendo con fragore un'enorme stella rossa, nei modi in cui le televisioni di tutto il mondo in questi giorni ci mostrano. La rivoluzione di Plivelic pare estendersi oltre il Cinquantasei, come se l'esperienza vissuta a far data da quel tragico ottobre esigesse una sorta di continuità nella personale ricerca interiore, mai completamente conclusa. Insorgono allora dall'interno istanze morali e nostalgiche, con quell'animo che fece scrivere a Leopardi alma terra natia, la vita che mi desti, ecco ti rendo, e la ricerca di Plivelic prende direzioni più decisamente autobiografiche, con l'idea di esplorare il presente partendo dal passato, ma con il proposito di proiettarla anche oltre, nella vigoria inesausta dei suoi settantuno anni. La rivoluzione come pretesto, dunque, ma senza trascurare l'esistente - sociale e privato -sui fatti di Ungheria, da cui la sua ricerca comunque prende avvio. Dispensa allora una valida documentazione per gli studiosi, pronto ad implementare quanto già si conosce con continue aggiunte bibliografiche, come si rileva dalla nutrita cronologia che chiude il volume, ampliata da uno spoglio attento della stampa nazionale sulle notizie diffuse all'epoca, a partire dalle prime avvisaglie di quel dirompente moto sociale. Da ferrarese di adozione, Plivelic non manca di rivolgere un pensiero a Ferrara e alla generosità che caratterizzò molte città italiane nell'accogliere i profughi della rivoluzione ungherese. Dilata allora lo spoglio a «Il Resto del Carlino» alla «Gazzetta Padana» della fine del 1956, per documentare quella che chiama la generosità dei ferraresi verso i profughi ungheresi, lasciandoci immaginare come dietro la stesura di quell'elenco di notizie, ci sia la commozione di chi riconosce alla nostra città l'umanità di un consesso di uomini e donne disposti ad accogliere, allora come oggi, chi invoca ospitalità, aiuto e calore. Sia questi profugo o migrante.
I. PLIVELIC, La mia rivoluzione. Da Budapest 1956 all'Italia, Ferrara, Este Edition, 2006.