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La segnalazione: Fare un film per me è vivere di Michelangelo Antonioni

06-08-2007 / A parer mio

di Giuseppe Muscardini

Della prima esperienza cinematografica di Antonioni si racconta un episodio tra il comico e l'agghiacciante. Risale al periodo bellico l'idea di un documentario sul manicomio provinciale di Ferrara. Ma durante la successiva lavorazione il regista dovette interrompere presto le riprese a causa del clamore e delle grida concitate dei malati di mente, impauriti dai riflettori accesi. Federico Fellini, abituato ad orientare l'obiettivo della telecamera su circostanze grottesche poste fra il riso e il pianto, avrebbe trovata straordinaria la situazione, come straordinario è l'episodio del malato di mente impersonato da Ciccio Ingrassia che in Amarcord reclama a gran voce una donna dall'alto di un albero, da cui si rifiuta di scendere.
A quella prima esperienza di Antonioni, ormai scritta negli annali della storia del Cinema e percepita dai ferraresi come aneddoto, pensavano intensamente i molti convenuti ai funerali del regista, svoltisi giovedì scorso presso la Basilica di San Giorgio. Ma se l'aneddoto rievoca l'amarezza di un fallimento giovanile, non così è vissuto il personale ricordo di quei fatti da parte del regista nel film Il grido (premiato con il Pardo d'oro a Locarno nel 1957), dove gli ammalati sono recuperati, riproposti e collocati nella cornice nebbiosa della pianura padana, dispensatrice di silenzi interminabili. Silenzi che, tolti gli applausi del pubblico alla fine delle esequie, hanno accompagnato la cerimonia funebre del regista quasi in omaggio a quel tacere dei protagonisti dei suoi molti films, in omaggio alle riprese sugli oggetti, posizionati e fissati a lungo dalla macchina da presa per esprimere l'essenza delle cose, sempre compagna della più ordinaria quotidianità. I gonfaloni municipali, gli abiti scuri delle autorità, le molte automobili nel piazzale della chiesa: anche questi erano oggetti su cui soffermarsi, testimoni di cose e di fatti che Antonioni umanamente conosceva. Gente, molta. Fra i presenti Wim Wenders, Tonino Guerra, Roberto Pazzi.
Dopo i felici riscontri degli anni Sessanta, Antonioni affermò nel corso di un'intervista che il films non si devono produrre per guadagnare, per dare ricchezza a chi li realizza, ma per un fine più semplice e più nobile, inteso come piacere di raccontare il mondo con uno strumento capace di andare oltre, e con esiti più efficaci rispetto ad altri strumenti in dotazione alla contemporaneità. Agli occhi di tutti risultò così convincente quel suo modo di concepire il mestiere, da incontrare immediatamente il consenso di altri registi, che sempre hanno riconosciuto ad Antonioni l'eleganza del dire e del fare. Anche a quelle sue parole, pronunciate senza esitazione, si pensava nel corso delle esequie. A questo si penserà nei prossimi giorni, quando la sua opera sarà ricordata in Piazza Grande a Locarno nell'ambito del 60° Festival Internazionale del Cinema, dove sarà proiettato il film La signora senza camelie, con una giovanissima Lucia Bosé.
Assolvendo doverosamente agli scopi informativi della nostra rubrica, è utile allora ricordare come quelle parole convinte, quei garbati modi di dire e di fare, trovino coerenza in una pubblicazione di cui fu Michelangelo Antonioni fu autore nel 2001, resa attuale dalla triste occasione e dal lutto cittadino. Già il titolo denuncia le intenzioni dell'autore, che consistono nell'aver legato indissolubilmente la sua esistenza alla rappresentazione della stessa esistenza attraverso il Cinema. Fare un film per me è vivere. Leggendolo, si raggiunge facilmente la persuasione che Antonioni muoveva da un autentico mondo poetico. La scomparsa del regista ferrarese toglie quel poco di poesia che è ancora rimasta nel nostro.

M. ANTONIONI, Fare un film per me è vivere. Scritti sul Cinema, Venezia, Marsilio 2001.