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La segnalazione: Noi moriamo a Stalingrado di Alfio Caruso

17-03-2008 / A parer mio

di Giuseppe Muscardini

Ciò che sappiamo dei molti uomini dell'Esercito Italiano inviati allo sbaraglio nella campagna di Russia, passa attraverso il racconto dei sopravvissuti, di coloro che hanno superato i congelamenti e la furia delle battaglie nei luoghi più sperduti di un Paese sconfinato. Lo sappiamo grazie alle testimonianze di uomini che lamentavano un equipaggiamento inadeguato, con suole di cartone pressato e cuoio, o indumenti di lana con cui non potevano proteggersi dal rigore del proverbiale Generale Inverno.
Ma la testimonianza che ci viene da Alfio Caruso, uno storico in grado di raccontare gli eventi mescolandoli alla forza dei sentimenti, è davvero chiarificatrice. Lo fa ricorrendo ad un duplice registro narrativo: da una parte i fatti della storia, così come li conosciamo, le diverse fasi della Campagna di Russia, l'ostinazione del comandante della Sesta Armata Friedrich Von Paulus, obbediente alle follie di Hitler e incapace di prendere decisioni per salvare il salvabile, l'assedio cruento e terribile di Stalingrado, le sofferenze inaudite di civili e militari; dall'altro il contenuto delle lettere di settantasette giovani soldati italiani che alle loro famiglie scrivono della dura e quotidiana esistenza in Russia, a fare i conti ogni giorno con condizioni proibitive e con la morte. Se all'inizio l'intento dei soldati è quello di sottacere i disagi e le privazioni che derivano dalla scarsità del cibo e dal freddo insopportabile, con i passare dei giorni e dei mesi non riescono più a celare la disillusione e gradualmente avanza anche la sfiducia di riuscire a sopravvivere. Tra questi vi è un ferrarese, il sottotenente Guido Giusberti, che ha una parte di rilievo nella tragica vicenda raccontata da Caruso. Non tornò a casa, Giusberti, così come non tornarono altri settantacinque commilitoni. Solo due di loro fecero ritorno dalla Russia, tale Walter Poli e tale Vincenzo Furini, propensi una volta in patria a dimenticare quel terribile 1942.
Sarebbe auspicabile, così come è avvenuto lo scorso anno nell'ambito della presentazione del libro a Castelplanio, in provincia di Ancona, che i parenti, gli eredi, i famigliari ancora viventi di quei settantacinque uomini, potessero incontrarsi per fornire ulteriori testimonianze, confrontando e integrando le informazioni contenute nei singoli capitoli di Noi moriamo a Stalingrado, denominati dall'autore con intenzione efficacemente lirica: Aspettami, ritornerò; Laggiù sul Volga; Ti ho mandato il vaglia; Siamo bloccati; Dalla cassa non si esce; Aiuta tu papà e mamma; Incontro alla morte; Sessantatre anni dopo. Un modo per rendere il giusto merito a uomini che dopo sessant'anni Alfio Caruso ha inseguito come un segugio, tallonato con l'uso della memoria, leggendo fra le righe delle loro lettere ai famigliari, contattando figli e nipoti e riuscendo del contempo a ricostruire una pagina di storia in cui la ferocia l'ha fatta da padrona, mietendo quattrocentododicimila uomini fra le forze alleate di Germania, Italia, Romania e Ungheria, e seicentomila sovietici dall'altra. Un totale di oltre un milione di uomini, secondo le stime degli storici.
Vi è un'immagine diffusa dai libri di storia che riassume visivamente quella ferocia: è la ripresa fotografica su una fontana divelta, dove sei bambini in bronzo, tre maschi e tre femmine, si danno la mano per un girotondo attorno ad un coccodrillo impaurito. Sullo sfondo un palazzo incendiato si staglia tra il fumo nerissimo dei bombardamenti. Di certo Alfio Caruso l'ha vista e ne ha analizzato la funzione simbolica. Non si spiegherebbe altrimenti quel coinvolgimento emotivo nel quale la sua scrittura sa trascinare il lettore.

A. CARUSO, Noi moriamo a Stalingrado, Milano, Longanesi, 2006.