Una, cento, mille Odissee
22-08-2007 / Punti di vista
di Gaetano Sateriale
Mi sono sempre chiesto cosa volesse significare davvero la prova dell'arco che Penelope propone ai Proci alla fine dell'Odissea. Perché l'arco di Ulisse era a casa? Perché era così importante se i Greci lo consideravano un'arma da caccia e non da guerra? Un'arma quasi sleale perché uccide da lontano (è infatti l'arma di Paride, che non è proprio il prototipo dell'eroe omerico). Perché l'accorta moglie di Ulisse si inventa proprio quel tipo di gara per selezionare il suo futuro sposo?
Ho trovato di recente (e per caso) una risposta interessante nei sotterranei del Museo Ermitage, dove sono conservati gli ori degli Sciti. Lì c'è un bel vaso d'argento con un guerriero scita che aggancia un arco (piegandolo tra le gambe) e la guida mi ha spiegato, con assoluta tranquillità, che riuscire a fissare la corda a un arco era considerato dagli Sciti un simbolo del passaggio tra l'adolescenza e l'età adulta. Ecco allora una possibile risposta. Penelope voleva sfidare i Proci a dimostrare di essere uomini veri (non solo giovani ambiziosi e opportunisti) e non c'è da stupirsi se alla fine l'unico che risulta in grado di superare la prova è proprio Ulisse. L'unico che riesce a tendere il grande arco e a centrare il foro delle 12 scuri.
L'Odissea è così: ogni volta che la si legge insegna qualcosa di nuovo. Perché probabilmente è la sintesi di un grande sapere diffuso all'epoca in cui fu scritta (più o meno nell'VIII secolo a.C.) non solo in Grecia, ma in una più ampia area dell'Oriente. Un sapere più diffuso e più antico persino di Omero. Non è un caso che vi si parli spesso e con naturalezza di Egitto, di Fenicia, e di altri paesi lontani, a volte fantasiosi. Si capisce perché sia uno dei libri più studiati e letti della letteratura di ogni tempo.
Sono molti i motivi con cui l'Odissea ha affascinato i lettori di tutte le epoche: un protagonista più umano che non i supereroi dell'Iliade, la durezza delle prove cui è sottoposto dagli dei, la sua capacità di uscirne guardando più lontano dei compagni, il fascino dei viaggi sul mare (colore del vino), la nostalgia della propria terra (della moglie e della famiglia), il racconto della guerra di Troia come di un'epopea di lutti e non di glorie, il disincanto del ritorno. Non c'è dubbio: l'Odissea affascina perché appare molto più moderna dell'Iliade. Come lo è un romanzo, si potrebbe dire, di fronte a un poema.
E non c'è da stupirsi se le avventure di Ulisse hanno ispirato l'opera di decine di pittori, scrittori, autori di teatro, scultori, dalla Grecia classica, all'epoca romana, fino a tutto il XX secolo.
Chiedersi che cosa c'entri la guerra di Troia con il Rinascimento è una domanda senza senso. Basta ricordare l'importanza della scoperta del Laocoonte e delle statue "omeriche" della grotta di Tiberio sullo sviluppo dell'arte italiana di quel tempo e da qui l'influenza sull'arte nel mondo, per darsi una risposta. Non c'è bisogno di richiamare la storia fra Marte e Venere (alle spalle di Vulcano) dipinta a Schifanoia, o la Maga Circe di Dosso. Omero è una fonte di ispirazione continua per gli artisti rinascimentali, alimentata dal "folle volo" dantesco e dal "Roman de Troie" di un paio di secoli prima.
Anche molti archeologi e geografi e letterati hanno speso le loro vite a cercare i luoghi "veri" descritti da Omero. Non era solo l'infatuazione di Schliemann, se già Strabone in epoca augustea girava la Grecia alla ricerca della vera Itaca o se Victor Bérard (il traduttore francese di Omero) agli inizi del '900 si è messo in mare con la sua barca per verificare il testo "sul campo" e identificare di persona l'isola di Polifemo, quella di Circe, quella dei Feaci e tutto il resto.
L'altro giorno, per caso, in un negozio di Levanzo, ho trovato un libretto appena uscito (G. Sansone) in cui con dovizia di coincidenze si sostiene (complici molti letterati inglesi, da Samuel Butler a Robert Graves) che tutta l'Odissea si svolge nel trapanese. Altri l'hanno collocata nel Mar Nero (Laerte, il padre di Ulisse è citato in un elenco degli Argonauti). Altri intorno a Creta (P. Faure), altri addirittura nel Mar Baltico (F. Vinci).
Insomma: ci sarà pure un motivo se quel libro (il primo che sia stato scritto in lingua greca, secondo B. Powell) sia ancora uno dei più moderni e affascinanti mai scritti dall'uomo.
Chi ha voglia di farsi contagiare dalla febbre omerica, ma non ha tempo di leggersi tutto il testo può far ricorso a "La mente colorata" (P. Citati) o al bellissimo "Il ritorno del guerriero" (G.A. Privitera) l'ultimo lavoro del più autorevole traduttore contemporaneo di Omero.
In attesa dell'Odissea di Luca Ronconi.