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Migranti alla deriva

05-06-2006 / A parer mio

di Marco Bertozzi

È il diciannove maggio, quasi le tre del pomeriggio. L'afa è già fastidiosa. Salgo le scale della Facoltà di Giurisprudenza, per raggiungere la vasta aula magna. Per il momento, è ancora deserta. C'è un ragazzo, che mi chiede se sono Dal Lago. No, certo, ma Alessandro Dal Lago - che insegna Sociologia della cultura presso l'Università di Genova - sta arrivando. Il giovane cronista, borsa a tracolla e aria riservata, desidera chiedergli un parere sulla decisione, presa da don Bedin, di accogliere in chiesa migranti allo sbando (bene, ma perché altri non sono in grado di affrontare simili emergenze?). Appena Alessandro arriva, glielo presento, per l'intervista.
Il salone è attraversato da correnti d'aria calda e umida, mentre gli interessati cominciano ad entrare. C'è un pomeriggio sul tema del multiculturalismo - ammesso che abbia senso adoperare questo termine, per cogliere i tratti distintivi di ogni singola persona, nonché migrante. Oltre a Dal Lago, doveva partecipare anche Khaled Fouad Allam, ma è trattenuto in Parlamento. Inevitabile, visto il faticoso inizio del nuovo governo.
Massimo Cipolla apre il pomeriggio e ci ricorda, garbatamente, come e perché siamo qui. A me, spetta il compito di presentare Dal Lago, che conosco da più di vent'anni. Da quando scrivemmo, insieme ad altri, un robusto inserto culturale, dedicato ad Aby Warburg, per il giornale di Lugano. Già, tra l'altro, siamo due vecchi warburghiani. A quell'epoca, eravamo davvero pochi: oggi, Warburg è diventato un autore di culto, visti i paginoni culturali della "Repubblica". (Ma, allora, dove eravate?).
Alessandro aveva appena tradotto, insieme a Rovatti, la biografia intellettuale di Warburg, scritta da Ernst Gombrich, ed io stavo per pubblicare la prima edizione del mio libro sugli affreschi di Palazzo Schifanoia. Prometto pubblicamente ad Alessandro di accompagnarlo, la prossima volta, a visitare la Sala dei Mesi: una visita speciale, da antichi compagni d'avventura.
Anche se Khaled Fouad non c'è, leggo parte di una sua bella recensione ("La Repubblica", 11 maggio) al romanzo "Scontro di civiltà per un ascensore in piazza Vittorio" di Amara Lakhous, "un giovane e brillante scrittore algerino che vive in Italia da oltre dieci anni, fuggito dall'orrore della guerra fondamentalista - scritto dapprima in arabo e pubblicato in Algeria, poi tradotto in italiano dall'autore stesso e ora pubblicato dalle edizioni e/o". La storia si svolge in un caratteristico e centrale quartiere di Roma, popolato da folle multicolori di migranti. L'ascensore, dove tutti salgono e scendono, "tracciando situazioni rocambolesche e un intrigo poliziesco", diventa la metafora di una vita in bilico tra andate e ritorni, un'altalena legata ai necessari ed agognati permessi di soggiorno. Un romanzo per cercare di capire come vivono gli immigrati, protagonisti del quotidiano "scontro" che tutti ormai ci coinvolge.
Già, il tema del nostro pomeriggio è dedicato all'incontro delle civiltà, rifacendo il verso al famoso saggio di Samuel Huntington "Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale", uscito nel 1996 e poi tradotto ovunque (fonte, non esplicitamente menzionata, anche della "trilogia" di Oriana Fallaci). La conversazione di Alessandro è appassionata e di tono piacevolmente narrativo. Ricordo ai presenti che una sua recente indagine sociologica, "La città e le ombre", sulla criminalità genovese sembra davvero una sorta di "romanzo criminale"...
Non devo assolutamente dimenticare di dirvi che Alessandro ha trasformato una clamorosa notizia, che i maggiori quotidiani avevano relegato in qualche pagina interna, in un evento da prima pagina (vedi "il manifesto" di domenica 14 maggio). Una barca di senegalesi, salpata da Capoverde, probabilmente per raggiungere Gibilterra, è approdata ai Caraibi.
La notizia è sconvolgente: "un battello partito dall'Africa e arenatosi sulle spiagge dei Caraibi con i corpi mummificati di venti clandestini e i documenti di tanti altri. Quanti saranno stati? Quale incidente li avrà spinti alla deriva per migliaia di miglia sulle onde lunghe dell'oceano? Quali saranno stati i pensieri di questi uomini mentre agonizzavano nella salsedine, tra spruzzi di pioggia o sotto il sole dell'equatore, tormentati dalla fame e dalla sete, mentre i gabbiani volteggiavano sopra di loro? Come saranno morti quelli di cui non restano tracce? La dimensione di questa tragedia ha proporzioni inimmaginabili, non solo per il numero dei morti, ma per la vastità degli spazi in cui la loro agonia si è consumata".
Non mi resta, cari lettori, che affidare la drammatica spettacolarità di questa incredibile notizia alle vostre meditazioni. Che cosa sta facendo, la nostra civiltà, di fronte a questa reale e, al contempo, simbolica discesa agli inferi da Gibilterra alle Americhe? Quante barche, con la bella stagione, stanno mollando gli ormeggi per salpare verso le luci scintillanti di un mondo colorato di speranze e di illusioni?