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Ferrara: l'isola indipendente

29-05-2006 / A parer mio

di Gian Pietro Testa

Che Ferrara sia un "caso" mi pare possa essere una considerazione accettabile e accettata. Un caso e, aggiungo, abbastanza strano. Una volta si diceva che Ferrara è una repubblica: non è una città interamente emiliana, fuori com'è dalla grande arteria consolare produttrice di ricchezza; non romagnola, pur avendo con la Romagna territori, tradizioni e dialetto molto vicini; non veneta, pur condividendo con l'oltre Po storia, storie e uomini. Con gli Estensi crebbe in maniera assolutamente autonoma rispetto alle sorelle padane. D'altro canto, la sua naturale e spontanea propensione al dominio, la portò, nel periodo di suo maggior splendore ed espansione, a essere capitale di un ducato interregionale che andava dai confini padovani a quelli di Ravenna, da Modena, Reggio e Parma fin quasi sotto le mura di Lucca attraverso la Garfagnana. Un territorio enorme, umiliato, per ragioni politiche e geografiche, dallo Stato Pontificio, che lo suddivise, le spezzettò chirurgicamente, impoverendo perfino il traffico mercantile che un tempo si svolgeva sulla Romea, da Roma appunto fin su agli stati germanici. Un caso strano, dicevo: negli anni del fascismo, Balbo tentò un'operazione interessante, perchè, mentre Mussolini si aggrappava alla romanità, il ras ferrarese puntò a riaccendere nella sua piccola capitale i fasti del grande ducato estense. Ma, a parte queste considerazioni di carattere storico, vorrei sottolineare come, accettando poi quasi supinamente la tranquillità provinciale, con la pedissequa dipendenza all'industria milanese (leggi Montedison), Ferrara ha gradatamente perduto l'aspirazione e la spinta a essere qualcosa di più dello scialbo destino di una comunità spersa nella grande campagna. Ci sono un fatto e un dato che vorrei sottolineare: prima della guerra, e subito dopo, Ferrara era una delle più grosse città della provincia italiana, oggi, invece, è ridotta a comunità a crescita praticamente zero con un aumento della popolazione minimo negli ultimi due anni dovuto quasi esclusivamente all'immigrazione. Mi pare, però, che le riflessioni su questo fenomeno, opposto a quello delle altre città emiliano-romagnole, abbia spiegazioni che forse non sono state tenute in sufficiente conto. Alla lenta, inesorabile perdita di popolazione ha contribuito, infatti, una costante emigrazione dei ferraresi in direzione dell'altra sponda del Po. Era successo che, dopo la grande alluvione del Polesine, la zona fu dichiarata depressa e il Veneto potè disporre di incentivi governativi e regionali a favore del rodigino: la politica divenne quella di attrarre popolazione e attività commerciali, industriali e artigianali offrendo a costo quasi zero aree e licenze edilizie, mentre nel ferrarese le zone industriali, commerciali e artigianali avevano costi molto alti. I ferraresi pare non si siano preoccupati. E l'esodo fu immediato. Migliaia di cittadini spostarono la loro abitazione, costruendo una villetta a costi bassissimi, di là da Po, e poi furono impiantate le attività produttive, tanto che oggi, da Santa Maria Maddalena a Occhiobello, si è formata una propaggine di Ferrara che attira interessi e mercati attivissimi. Santa Maria era un piccolo borgo, un agglomerato modestissimo di case, oggi, con Occhiobello, si propone come un centro di grosse proporzioni, oltre quindicimila abitanti, circa ventimila con Polesella, tutte località che non fanno riferimento al capoluogo provinciale, Rovigo, ma a Ferrara, tant'è che la municipalità estense ha dovuto estendere i servizi di autotrasporto urbano fino all'oltre Po, credo con spese non indifferenti. Voglio dire che Ferrara non è la città di 131.000 abitanti che i censimenti le assegnano, ma è una comunità di oltre centocinquantamila persone, una parte della quale amministrativamente appartiene a un altro capoluogo. Forse sarà ora di cominciare a pensare a questo fenomeno quasi unico in Italia, da troppo tempo Ferrara è come un'isola galleggiante tra Veneto, Lombardia, Emilia e Romagna.