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Gli interrogativi di un Viaggiatore Indigeno

22-05-2006 / A parer mio

di Riccardo Roversi

Un quesito intrigante, cui rispondere è quasi come confessarsi: c'è in questa città inevitabile, in quest'orco utopista che non divora nessuno eppure incute tanto spavento, in quell'enorme cuore o in uno dei suoi molti cuori, c'è un'anima?
Così si interroga "nell'input di un suo breve appunto" un Viaggiatore Indigeno circa la metafisicità di Ferrara, ovvero l'individuazione del mistero che si cela al di là dell'apparenza meramente ottica delle "cose" e degli "oggetti" della città. Ebbene "prerogativa più unica che rara" la risposta è già contenuta nella domanda: l'anima di Ferrara risiede nella sua identità di luogo "inevitabile"; ma non tanto nel senso di "ineluttabile" quanto piuttosto in quello di "irrimediabile", a sua volta da intendersi come status "necessario e definitivo".
Il problema sono i ferraresi. O meglio, il problema è dei ferraresi, costretti a vivere quasi da estranei in un organismo "vivente" urbano che aspira aristocraticamente ad ignorarli. Si legge infatti altrove, sempre per mano del Viaggiatore Indigeno, che la città annida l'esclusiva dimensione di vita propria in assenza di persone e provoca il morboso turbamento di sentirsi osservati, non da occhi ma dai muri. Troppo bella, superba e sottilmente presuntuosa, lei non accondiscende che a se stessa, sorride raramente, crede di essere immortale e ha ragione.
I ferraresi, ormai consapevoli della loro condizione di "ospiti" perenni, hanno da tempo rinunciato all'acquisizione del rango di cittadini emancipati e autodeterminanti, accettando in buona sostanza di rimanere sudditi pacifici e consenzienti di un luogo-non-luogo che rappresenta la sicura placenta delle loro incerte e sconosciute "irrimediabili" origini. Poiché le radici dei ferraresi affondano più nel pathos dell'appartenenza ad un'atmosfera che nella solidità genetica di una terra, perché i ferraresi "antropologicamente" non esistono, sono straniati e irremovibili, domestici e stranieri. Né Ferrara esisterà per sempre, come scrive il Viaggiatore Indigeno in un momento saliente del proprio viaggio.
L'antica via degli Angeli sale e discende sbisciando, sembra una spirale dentro a una prospettiva. Guardandola dal Castello comunica un senso di metafisicità che sconcerta, vista dall'omonimo portello pare invece annullarsi in un'ombra ciclopica e inesplicabile, difficile da focalizzare in quello specchio di luce. Nei tramonti di nebbia incute spavento, come se camminandola sino al fondo corressimo il rischio di snidare, evocatrici d'inquietudini, le nostre infamie più inconfessate. Si dice che possa condurre dovunque: e forse lo fa. Uno dei blocchi incisi a diamante che decorano il palazzo a mezzo del corso dicono che nasconda un gioiello, i cui ricercatori avrebbero deturpato qua e là l'originalissimo fregio ideato da Biagio Rossetti: ipotesi suggestiva ma naturalmente non vera. Credo. Al quadrivio il palazzo dei Diamanti funge da perno gravitazionale, sul quale e non sul Castello ruota l'orizzontale e profonda città. Poiché essa, incompleta e incompletabile, si muove a dispetto del mondo ma in tondo, rimanendo alla fine comunque inarrestabile e immobile. Nelle notti scure di pioggia le aguzze pareti sembrano animarsi, offrendo equivoci d'inconsistenza e di trasparenza: nulla, nemmeno le correzioni ottiche sopravvenute con il passare dei secoli, è rimasto vittima dell'arbitrio del tempo. Ma nel destino di quel posto è scritto che un giorno, nel terzo millennio, l'estrema via degli Angeli scivolerà trascinando con la sua bolla d'aria nebbiosa nel Po la città, per poi approdare galleggiando alla primigenia, ombelicale, immemore culla. Il mare.