L'impraticabilità del tempo
22-09-2006 / A parer mio
di Riccardo Roversi
Parallela al palazzo di Ludovico il Moro fluisce porta d'Amore, già del Buon Amore, pigra e sinuosa verso l'omonimo baluardo. Il breve nastro di ciottoli sembra in fondo arrampicarsi sui bastioni perimetrali, che a sinistra scivolano alla punta della Giovecca e a destra curvano ad arco attraversando l'immaginosa Fortezza sino alle mura degli Angeli. È da là che si domina la Certosa: spaziata da rari illustri monumenti e mitigata dal chiostro semicircolare, con il suo porticato che si flette fin sotto le mura urbane adiacente a case e muraglie delimitanti vasti orti. D'attorno si stendono campi coltivati eppure si cammina ancora dentro la cerchia, nell'estremo lembo incolume dell'addizione "erculea", il cui piano metafisico distingue tuttora con giudizio volumi ingombri e vacue estensioni.
Perché la metafisica e perché in questa città? Domanda quasi impertinente. Quale altro organismo urbano possiede tante e tali ombre apparenti, piazze smisurate, illusioni ottiche, prospettive infinibili, "caproniane" asparizioni di spazi. Altrove, la sola Venezia è concepita con altrettanto dispiego dei princìpi sostanziali del reale: filosofia al di là dell'esperienza. Qua ci sono stalli che sfiorano la perfezione completamente sguarniti di equilibrio, c'è il cuore stesso dell'essenza metafisica: l'impraticabilità del tempo. La piattezza consistente dell'addizione è il panorama privo d'orizzonti di una città orizzontale, soltanto appoggiata nel mondo, con radici e fondamenta interrate nell'ipotesi di quell'ipotesi. Smarrirvisi è come concludere un viaggio per poi non itinerare mai più, poiché tutto ciò che c'è dopo non serve. È di meno.
Ed è per questo che l'itinerario del Viaggiatore Indigeno si è concluso proprio qui. Qui, ammaliato dal fascino di pietre resuscitate e favolose atmosfere, di inquietanti vicende e dame perverse: come si legge in un ambiguo passo del suo fedele diario.
«Al fondo quasi di corso della Giovecca, appena dopo parco Pareschi, discretamente si affaccia dalle finestre come occhi la palazzina appartenuta a Marfisa d'Este. Una dama inquieta, spregiudicata e ammaliante, fin dall'epico nome di ariostesca memoria. Da secoli la sua fama è terribile. Torquato Tasso ne cantò la fierezza e avvenenza, contribuendo ad alimentare la leggenda nella magione bassa e solinga dagli orti invisibili, dove la presunta mantide adescava gli innumerevoli amanti, prima goduti nelle orge d'amore e poi precipitati nei pozzi a rasoio.
La bellezza delle donne indigene è pari solo al loro cinismo. Al contrario degli uomini esse sono entrate in simbiosi coi muri e le piazze, i cortili e le strade, vivono con complicità la medesima altezzosa apatia del luogo, l'esasperante indugio del tempo. Eppure qualcuna, più indifferente e superba, ha conosciuto il castigo mai toccato a Marfisa.
Altrettanto perversa, bionda esile e occhi chiari, a soli tredici anni Lucrezia Borgia convolò a nozze con Giovanni Sforza, amò perdutamente il messo vaticano Pedro Caldes, poi ucciso dal fratello Cesare, il suo secondo marito: l'aragonese Alfonso, venne assassinato nel proprio letto, immolò il suo amore impossibile per l'umanista Pietro Bembo e infine, dopo tre matrimoni e all'età di trentanove anni, morì del parto che interruppe precocemente la sua ottava gravidanza. Educata fin da giovanissima al vizio, ai delitti e agli intrighi di stato, Lucrezia rimase comunque presuntuosamente estranea alla corte e alla gente, così come alla sua breve vita lo furono in fondo gli affetti e l'amore».