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Lucrezia Borgia: "Beletissima, ridente e umanissima"

04-01-2007 / A parer mio

di Riccardo Roversi

Eureka! Il Viaggiatore Indigeno, sempre alla strenua ricerca di rari incunaboli o sconosciuti documenti storici, stavolta ha rinvenuto un prezioso manoscritto (autentico?) di Lucrezia Borgia; nel quale la figlia di Papa Alessandro VI racconta del suo arrivo a Ferrara, in occasione delle proprie nozze con Alfonso I d'Este. Ecco il testo in lingua corrente.

«Ho ventidue anni. Lascio il mio tempo precoce di fanciulla a Roma, ed entro da giovane donna, e madre, nella piazza d'una città depositaria di altrettante bellezze. Il fianco di questa cattedrale che ripara la piazza, di questo tempio innalzato a Dio, non può che ricordarmi mio padre, Rodrigo, che il secolo conosce come Alessandro VI e i fedeli acclamano Papa. Il mio signore, Alfonso, mi prende come sua sposa e m'accoglie nel prezioso ricettacolo del suo cuore e nelle nobili dimore dei principi estensi. A me non resta che essere degna di tanta premura, io desidero conquistare la meraviglia di questa città con armi leggiadre, io voglio che nessuno dei posteri, nemmeno fra cinquecento anni, abbia a dimenticare che l'azzurro delle mie iridi specchia questo cielo di pianura, che il biondo dei miei capelli è l'estate nei campi di grano maturo. Affinché la mia vita a Ferrara generi la memoria delle cure devote di una sposa.
Le mie ancelle già mi hanno riferito come la gente mi descrive fin dal mio arrivo: "beletissima de facia… ochi vaghi e alegri… li capili aurei… la bocha con li denti candidissimi… ridente… e umanissima". Mi auguro di non deluderla. E spero che non riaffiori l'avversione per mio padre, che questo popolo ha in passato definito "marrano spagnolo": una ostilità dovuta all'ingiusta condanna del loro concittadino Girolamo Savonarola, arso ormai quattro anni orsono quale eretico in Firenze. Infatti egli è adesso invocato come santo, da quando un cieco prese le ceneri del suo rogo, "se ne fregò a li ochi et ritornoli la vista". Poiché anch'io ho la tristezza nell'animo, per i miei due figli lontani da me, e per la nostalgia del mio amato fratello Juan, spento da mani violente non molti mesi prima di Savonarola. No… il mio timore è infondato. Qui mi si onora e accoglie con pifferai e giocolieri, musici e saltimbanchi. Questi uomini e donne vivono in una città troppo bella, per trarne cattivi presentimenti.
Mi sono così accuratamente preparata per il mio arrivo di tre giorni orsono. Ho vestito un abito d'oro riccio, guarnito di raso cremisi, con le maniche intagliate alla moda di Castiglia, un mantello foderato di zibellino che si apre alla gola; al collo portavo un monile di rare perle, con un pendente di rubini e un gioiello a forma di frutto. Allorché il mio bucintoro è ormeggiato, il duca Ercole di Ferrara, imponente e maestoso, con gli occhi azzurri di ghiaccio sempre tristi, mi attendeva con i dignitari della Chiesa e dello Stato, gli ambasciatori, i magistrati, e una scorta di cortigiani con numerosi arcieri a cavallo, in livrea rossa e bianca allineati lungo il fiume. Ho superato a passi rapidi la passerella e mi sono inginocchiata a baciare la mano del mio suocero, ma egli mi ha subito sollevata dalla genuflessione e mi ha abbracciata quale figlia novella del suo casato. Poi mi ha condotta al prezioso baldacchino, dove sono stati ricevuti i rappresentanti di Firenze, di Lucca, Venezia e di altri Stati. Per un istante ho pensato che in questa città vi sia il mondo, e creduto che il mondo fosse mio.
Giunto il tramonto ho visto Alfonso, che non ha saputo indulgere all'attesa, all'ansia di vedermi. Io ero ospite tre sere fa nella villa magnifica di Annibale Bentivoglio, consorte della mia omonima d'Este, e mi ero assopita di schiena al fuoco del camino, con le chiome ancor umide dal bagno allargate sulle spalle, sulla spalliera e sui braccioli della scranna, come un mantello d'oro lungo fino a terra. Egli è giunto in incognito, inatteso nella stanza, rimanendo d'incanto (così poi mi ha confessato) davanti all'onda dorata che m'incorniciava, davanti al colore di giglio del mio viso, alla fronte d'avorio solcata dalle ciglia, alle palpebre come petali di fior di lino, alle labbra purpuree, il collo di neve, il seno a calice, e davanti alle dita affusolate delle mie mani aperte, abbandonate sui braccioli della sedia. Emersa dal sonno, l'ho sorpreso di sasso a contemplarmi, perduto anch'esso nel mio languore fuori dal tempo. Così ho accarezzato per la prima volta il viso di Alfonso, e l'ho baciato.
Ho saputo che i ferraresi, dopo una iniziale apprensione, hanno riso della mia scivolata da cavallo di pocanzi, così come ne ho riso io, "zenza lesione alcuna", ai palafrenieri accorsi a sorreggermi mentre saltavo a terra leggera come un uccelletto. Anzi che un moto di simpatia ha accolto la mia allegrezza, nel divertirmi all'impennata del destriero causata dalla salva di artiglieria. Voglio interpretare il contrattempo come un buon segno, che avvalora l'amicizia di questa gente e della Signoria a me, al mio casato e a mio fratello Cesare: "il Valentino". Che non avrebbe condotto facilmente a buon esito le sue imprese, condivise dal re di Francia, se la Signoria estense non avesse appoggiato la sua azione politica e militare nella terra di Romagna. Sì… anche a questo imprevisto del destino voglio pensare come a un buon auspicio, di quella che sarà la mia vita in questa città di nebbia e di acque.
Stamane, festa della Candelora, ho fatto col seguito il mio ingresso dalla porta di Castel Tedaldo: "ornato non se poteria pensare in che modo". E fra un tripudio di panni multicolori, di sete e broccati, martore e damaschi, e accompagnata dai dottori dell'Università, dall'ambasciatore d'oltralpe, dalla duchessa d'Urbino e da ospiti d'onore e musiche e doni, eccomi adesso giunta davanti al palazzo del mio sposo. In cima allo scalone mi aspetta la Corte estense, con il duca Ercole, le cognate Isabella e Lucrezia e molti, molti altri. Alfonso tra poco mi offrirà il braccio per l'ascesa alla sua magione avita, e io già fremo all'incontro con il giovane letterato di cui da tempo si vocifera, e che si mormora sia infallibilmente destinato alla gloria poetica per i secoli dei secoli: Lodovico Ariosto. L'ora sognata è venuta, è diventata realtà. E in quest'ora una certezza mi si acquieta nell'animo, che io resterò oltre il tempo senza tempo. Che io rimarrò per sempre in questa città».