Melanconie campestri
29-08-2007 / A parer mio
di Riccardo Roversi
In questa nuova pagina del "diario ferrarese", il Viaggiatore Indigeno descrive, sfoggiando una insospettata prosa di ragguardevole afflato letterario, la nostra 'secolare' e bellissima campagna. Vi si adombra una sorta di 'panteismo' di dannunziana memoria, nel quale il Viaggiatore si fonde e confonde in una complice commistione con la natura.
Vorrei comprendere perché, dopo che ho tanto visto, ancora mi soffoca il silenzio quando in aprile le viole azzurre paiono occhi, e quelle viola pitturate.
Nelle domeniche di pasqua basta un passo di frascame che la moviola dei momenti, in sequenze, svela il sipario.
Le melanconie campestri affiorano dai fossi colmi, negli scoli che tagliano i frumenti, i loro agguati colgono precisi a tradimento nel diaframma.
Allora i visi che sappiamo si profilano nel volo dei rondoni e le parole, le più sciocche, che abbiamo sparse dentro i campi oppure sciolto alle stellate si ridestano e rispiano, dalle chiuse e dai canali, dalle aie nelle corti, dai fienili disperati.
Quasi pudiche di noi.
Vorrei capire ciò che manca nelle vene, alla mia pelle, per confondermi con l'erba e poi vivere e morire e alla fine ritornare.
L'eterna giovinezza dei papaveri è la verità che non capisco, o comunque non del tutto.
E pensare che sarebbe così facile accontentarsi dei colori d'una mora, o supporre che vi siano siepi ombrose e inaccessibili.
Così almeno a volte capita, persino a me che le ho inventate.
I visi tutti e le parole riconosciutomi s'appaiono, si arrendono a evidenze d'argini, ai canneti degli stagni.
Un'onda di voci e di sorrisi straripa sui sentieri, davanti, dietro e quelli dentro.
No nulla non cambia, se rimaniamo tali e quali nelle illusioni che avevamo quando non c'erano illusioni.
Poi il sole scusandosi si sfiamma e loro si riacquietano nei vomeri, dopo avermi salutato a uno a uno.
Riannidano i nascondigli che io so e si addormentano di nuovo, indugiando un altro incontro.
Quasi orfani di me.