Avisini d'antan
03-11-2008 / A parer mio
di Andrea Poli
Sabato scorso il vostro cronista, bello e pimpante come non mai, si fa tanto per parlare, era in Castello alla quarantunesima festa sociale dei donatori di sangue dell'Avis di Ferrara. Spinto colà, come di norma gli succede in questi casi, da un nobile ideale: il rinfresco di fine cerimonia. Sapientemente organizzata dall'inossidabile presidente comunale Sergio Mazzini, la manifestazione ha visto un numero di premiati che la dice lunga sul successo della benemerita organizzazione e sull'insopprimibile istinto alla solidarietà sociale dei ferraresi: addirittura trecentosettantatré (trecentosettantatré, oh dico!, e solo per il comune di Ferrara), tutti indistintamente degni di sempiterna lode per almeno due motivi: perché compiono regolarmente un piccolo grande grandissimo gesto di altruismo, e perché si sono presentati solo in minima parte a ritirare di persona il premio, dal momento che la sala di Consiglio, graziosamente messa a disposizione dalla Provincia, è drammaticamente inadeguata a un consesso del genere, con i convenuti pistafissati come sardine fra tutte le autorità di domineddio (all'Avis non si può proprio dire di no) da una parte, e la sfilarata di labari di tutte le sezioni avisine della provincia in precario appoggio murario dall'altra. Per chi, come il vostro cronista, frequenta l'ambiente oramai da secoli, è apparsa chiara una inarrestabile mutazione antropologica dell'associazione. Intanto perché le donne -storicamente ai margini a cagione del fatto che possono fare solo due donazioni all'anno invece di quattro, per via del ciclo, che non è la bici, sapete- si sono fatte strada, conquistando addirittura la presidenza provinciale con Deanna Marescotti; segno che dove si lavora per la gloria, e cioè pro caritate et amore dei, i tabù sessisti cadono più in fretta che nei posti in cui gira la grana. E poi perché non ci sono più i donatori di una volta; l'incedere impietoso dell'età ha infatti spazzato via la vecchia generazione di volontari. Presidenti di straordinaria umanità che nei discorsi ufficiali, erano gli anni mica tanto belli dell'eroina, dopo aver snocciolato la inevitabile litania di aride cifre tecniche -e tanti donatori di qua, e tante donazioni di là, e tanto percento in più sull'anno scorso eccetera eccetera- viravano invariabilmente al melò: "E mentre tanti giovani tendono il braccio per distruggere le proprie vite con la droga, gli avisini tendono invece il proprio braccio per donare la vita agli altri", accompagnando il dire con la vigorosa mimica del braccio destro steso in avanti col pugno all'insù; ma tutti tutti i presidenti eh, non se ne salvava mica uno che è uno. I più sanguigni finivano addirittura in trance agonistica, pompando ritmicamente il pugno per gonfiare la vena come se fossero sul punto di fare davvero un prelievo di zero positivo lì, sul palco. E iscritti che compensavano brillantemente la caduta dei capelli con un aumento corrispettivo della circonferenza addominale, i quali, alla fine della donazione, mentre l'addetta alla sussistenza sussurrava un flautato: caffelatte o tè?, ribattevano recisi: "An son mina malà veh, ssgnora!", e optavano per uno scalfaro di vermut. Ma uno scalfaro proprio, alto così (di preferenza rosso, perché 'fa sangue'), alle otto e mezzo del mattino completamente a digiuno. Poi uscivano barcollando leggermente, ma i medici e gli infermieri della vecchia guardia non si mettevano in apprensione come fanno premurosi quelli di oggi, sotto la guida dell'impareggiabile dottor Marco Ceron, coi giovinotti segaligni che di tanto in tanto a fine donazione smalviscono improvvisamente in faccia: e siediti di qui, e riposati di là, e mettiti lì tranquillo che ti provo la pressione vedrai che fra due minuti passa tutto. Sapevano bene, i filoni di sanitari della vecchia guardia, che quella camminata sghemba non era collegabile ai quattrocentocinquanta cubici che erano usciti dal donatore prima, ma piuttosto al volume pressoché equivalente che ci era rientrato dopo.