Ferrara e la "Giornata della Memoria"
All'Istituto "Luigi Einaudi" una targa in ricordo di Giorgio Perlasca
26-09-2006 / A parer mio
di Stefano Gargioni
In occasione della prossima "Giornata della Memoria", che come ogni anno si celebrerà il 27 di gennaio, l'Istituto Professionale "Luigi Einaudi", con l'affissione di una targa, intitolerà la sua Aula Polivalente alla memoria di Giorgio Perlasca. La proposta, nata dal sottoscritto e condivisa con il figlio Franco, a cui mi lega una decennale amicizia, è stata accolta e fatta propria così dal Dirigente Scolastico dr.ssa Mara Salvi e dal Collegio dei Docenti, come dalla Commissione Toponomastica del Comune di Ferrara, di cui faccio parte e alla cui sensibilità e disponibilità non posso che rendere omaggio. E' la prima volta che la nostra Città ricorda, in modo ufficiale, quest'uomo, la cui vicenda venne alla luce alla fine degli anni '80, ma che il grande pubblico ha cominciato ad amare e apprezzare soltanto qualche anno fa, grazie alla bella fiction-tv dal titolo "Perlasca: un eroe italiano", con Luca Zingaretti nei panni del protagonista.
Mandato durante la guerra come incaricato d'affari con lo status di diplomatico nei paesi dell'Est per comprare carne per l'Esercito italiano al fronte e trovandosi a Budapest l'8 settembre 1943, Perlasca, sentendosi vincolato dal giuramento di fedeltà prestato al Re, rifiutò di aderire alla Repubblica Sociale Italiana e fu quindi internato per alcuni mesi in un castello riservato ai diplomatici.
Quando i tedeschi presero il potere, intorno alla metà di ottobre del 1944 e affidarono il governo alle Croci Frecciate, i nazisti ungheresi, ebbero inizio le persecuzioni sistematiche, le violenze e le deportazioni dei cittadini di religione ebraica.
Perlasca, prospettandosi il trasferimento degli internati diplomatici in Germania e approfittando di un permesso per una visita medica, riuscì a fuggire. Si nascose prima presso vari conoscenti quindi, grazie ad un documento che aveva ricevuto al momento del congedo in Spagna, dove aveva combattuto durante la guerra civile, trovò rifugio presso l'Ambasciata spagnola, che gli concesse immediatamente la cittadinanza, munendolo di regolare passaporto. Da quel giorno, il commerciante di bestiame Giorgio si chiamò Jorge Perlasca e iniziò a collaborare con Sanz Briz, l'Ambasciatore spagnolo che assieme alle altre potenze neutrali presenti (Svezia, Portogallo, Svizzera, Città del Vaticano) stava già rilasciando salvacondotti per proteggere i cittadini ungheresi di religione ebraica, ospitandoli nelle "case protette" dell'ambasciata, che godevano dell'extraterritorialità.
Fu alla fine di novembre di quell'anno terribile, quando Sanz Briz lasciò Budapest e l'Ungheria, ufficialmente per non riconoscere de jure il governo filo nazista di Szalasi, di fatto per avere salva la vita, che l'avventura per cui Perlasca viene oggi ricordato ebbe inizio. Quando, il giorno successivo, il Ministero degli Interni ordinò di sgomberare le case protette, Giorgio Perlasca prese la sua decisione: "Sospendete tutto! State sbagliando! Sanz Briz si è recato a Berna per comunicare più facilmente con Madrid. La sua è una missione diplomatica importantissima. Informatevi presso il Ministero degli Esteri. Esiste una precisa nota di Sanz Briz che mi nomina suo sostituto per il periodo della sua assenza".
Venne creduto e le operazioni di rastrellamento furono sospese.
Il giorno dopo su carta intestata e con timbri autentici compilò di suo pugno la sua nomina ad Ambasciatore spagnolo e la presentò al Ministero degli Esteri, dove le sue credenziali vennero accolte senza riserve.
Nelle vesti di diplomatico resse pressoché da solo l'Ambasciata spagnola, organizzando l'incredibile "impostura" che lo portò a proteggere, salvare e sfamare giorno dopo giorno, sino all'entrata in Budapest dell'Armata Rossa, migliaia di ungheresi di religione ebraica. Alla fine, furono 5218 gli ebrei ungheresi che, grazie al suo intervento, ebbero salva la vita.
Io non ho conosciuto personalmente Giorgio Perlasca, morto nell'agosto del 1992, anche se credo di aver letto quasi tutto quello che c'era da leggere su di lui. Attraverso le parole e i racconti di Franco, però, che dopo la morte del padre ha dato vita ad una Fondazione che si propone di diffondere, accanto al ricordo della sua vicenda, i valori che ne ispirarono l'agire, ho imparato a voler bene a questo - come definirlo? - "eroe - anti-eroe", che ha scritto una delle pagine più belle e nobili della storia del nostro Paese, in uno dei suoi momenti più tragici e cupi, quello delle ultime drammatiche settimane del secondo conflitto mondiale.
Enrico Deaglio fu il primo giornalista e scrittore che, in un piccolo ma intenso volumetto edito da Feltrinelli narrò, all'inizio degli anni '90, la storia di Giorgio Perlasca, sull'onda di una puntata di Mixer andata in onda il 30 aprile del 1990. Deaglio diede al libro un titolo emblematico: "La banalità del Bene", a significare come a volte il Bene, quello con la B maiuscola, riesca a farsi largo e a trionfare nei modi e nelle forme più incredibili e impensate.
Alla fine del film una voce fuori campo, quella di Lilli, una bambina ebrea fra le tante che era stata salvata da Perlasca, narra di una storia della Bibbia raccontatale da suo padre. Questa storia dice che in qualsiasi momento, nel mondo, ci sono sempre 36 "Giusti". Ed è per amor loro che Dio non distrugge il mondo. Nessuno sa chi sono e nemmeno lo sanno loro stessi, che però sanno riconoscere le sofferenze degli altri e se le prendono sulle spalle.
Anche a me piace pensare che Giorgio Perlasca fosse uno di quei 36 "Giusti".
Cosa avrebbe spinto altrimenti un uomo che ebbe l'occasione di scappare in Svizzera, verso la salvezza, con un salvacondotto dell'ambasciata spagnola, a rimanere a Budapest, a rischio della sua stessa vita, sino alla fine, spacciandosi per ambasciatore pur di portare a termine il programma umanitario di salvataggio di migliaia di cittadini ungheresi di religione ebraica, che la Spagna conduceva insieme ad altre legazioni di Paesi neutrali e alla Croce Rossa Internazionale?
Dunque, la banalità del Bene. A chi gli chiedeva, quando la sua vicenda venne a galla, nell'autunno dell''89, a 45 anni di distanza dai fatti, perché l'aveva fatto, Giorgio Perlasca rispondeva, con la più grande naturalezza: "Lei che cosa avrebbe fatto al mio posto?" Quante volte mi è capitato, in questi anni, di farmi la stessa domanda: "Cosa avrei fatto io al suo posto?" E come mi avrebbe fatto piacere, se avessi potuto incontrare Giorgio, rispondergli: "Avrei fatto la stessa cosa!". Non ne ho avuto la possibilità e, d'altra parte, non sono sicuro, scrutando nella mia coscienza, che sarebbe stata questa la mia risposta più sincera.
Certo, di italiani che hanno aiutato gli ebrei durante la seconda guerra mondiale ce ne sono stati tanti: magari rifiutandosi di commettere una brutalità, nascondendo una pratica, facendo una telefonata di avvertimento, o semplicemente ritardando o deviando il corso di eventi che sembravano ineluttabili, come la deportazione sui carri bestiame verso i campi di sterminio.
Ma la vicenda di Perlasca - come ricorda Deaglio nel suo libro - è più grande e - a pensarci bene -quello che fece fu unico e clamoroso. Non aveva una funzione, ma se la creò. La sua azione poi non si esaurì in un solo gesto, ma durò mesi e venne portata a termine con grandi doti di organizzazione che produssero risultati insperati, nelle condizioni più rischiose.
Perché dunque non si seppe niente di lui per quasi mezzo secolo e fu scoperto quasi per caso a Padova, dove viveva, ormai anziano, modestamente, da un gruppo di donne ungheresi che da anni cercavano in mezzo mondo uno Jorge Perlasca che, tanti anni prima, quando erano bambine, le aveva salvate da morte certa?
Eppure Giorgio, pur senza vantarsene, tornato a casa dopo la guerra, aveva raccontato a diverse persone quello che aveva fatto. Ne aveva addirittura parlato a De Gasperi, a Pella, al presidente dei liberali triestini Forti. Aveva persino scritto un diario e lo aveva consegnato al "Messaggero Veneto", salvo poi andarselo a riprendere qualche anno dopo, visto che sembrava che nessuno fosse interessato alla cosa.
Tale fu l'indifferenza che lo circondò, che lui stesso finì quasi per dimenticare quei fatti lontani, o comunque per non parlarne più, neppure in famiglia, se non attraverso accenni fugaci a singoli episodi che impedirono a sua moglie Nerina e allo stesso Franco di ricostruire per intero quello che era accaduto.
E non è difficile capire il perché di questa sorta di oblio, che non fu certo dovuto al caso. Diciamo così: a Giorgio Perlasca, nell'immediato dopoguerra, mancavano molte qualità per far parte dei modelli vigenti dell'eroismo che erano allora di moda, per essere "santificato" dai santuari della politica nazionale di ogni colore e orientamento.
Era un personaggio scomodo per la Destra nostalgica e neo-fascista che si richiamava all'esperienza tragica della Repubblica di Salò e che nelle Tesi del Manifesto di Verona, mutuando dalle leggi razziali del 1938, additava ancora gli appartenenti alla razza ebraica come stranieri e appartenenti a una nazionalità nemica.
Era un personaggio scomodo per la Sinistra social-comunista e massimalista del Fronte Popolare, che nel suo manicheismo non poteva accettare l'idea che un volontario in Abissinia, che aveva combattuto con le Camice nere della "28 ottobre" e che nel dicembre del 1936 era partito, sempre come volontario, per la Spagna, dove si era battuto come artigliere al fianco dei falangisti del generalissimo Franco, potesse aver salvato migliaia di ebrei e dunque essere catalogato tra i "buoni" anziché tra i "cattivi" per antonomasia. La Sinistra non poteva accettare cioè l'idea che Perlasca, pur deluso dall'ultimo fascismo, che si era assunto la drammatica responsabilità delle leggi razziali ed era entrato in guerra al fianco della Germania nazista, non fosse però mai diventato, dopo la guerra, un antifascista né, tanto meno, avesse inteso lucrare quei vantaggi che un antifascismo di maniera, ipocrita e interessato, gli avrebbe potuto facilmente far ottenere.
Ed era infine un personaggio scomodo per l'establishment politico democristiano che allora gestiva il potere e che, sull'onda dell'amnistia negoziata con Togliatti, si guardò bene dal punire i responsabili italiani delle deportazioni e, per una tacita legge di compensazione, tacque di conseguenza anche su chi si era adoperato per salvare gli ebrei da quel triste destino.
Ci fu, insomma, da parte di molti, di troppi, troppa voglia di rimozione e poca voglia di fare paragoni. Nessuno aveva interesse in quegli anni a porsi questa domanda scomoda: "Se un uomo solo - modesto, senza una solida rappresentanza politica, confidando solamente sul proprio coraggio e sull'occasione che il destino gli aveva fornito - era riuscito in quell'impresa, perché allora altri non fecero come lui?"
L'incredibile storia di Giorgio Perlasca, un uomo veramente "oltre le ideologie", è stata "acciuffata per un pelo". Scoperto, come ho già avuto occasione di ricordare, nell''89, morì tre anni dopo, , dopo aver ricevuto una lunga serie di attestati di benemerenza e di onorificenze dallo Stato di Israele (dove fu insignito del titolo di "Giusto tra le Nazioni"), dall'Ungheria, dalla Spagna, dagli Stati Uniti d'America. L'Italia, naturalmente, arrivò buon'ultima, facendogli pervenire una medaglia al valore a casa nell'autunno del '92, quando ormai se ne era andato per sempre da poche settimane.
Ancora per poco, e l'ignavia degli uomini avrebbe fatto sì che la sua storia rimanesse sepolta per sempre o comunque non creduta. Questo non è successo e di questo non possiamo che compiacercene.
Nell'intervista rilasciata a Minoli per Mixer, Perlasca ammonì i giovani, ricordando loro che "quello che è successo allora potrebbe ancora ripetersi e in quel caso bisognerebbe trovare il coraggio di opporvisi." Io, molto più modestamente, nel ricordare l'immane tragedia della Shoah, grazie alla storia di un cattolico come Giorgio Perlasca, da cattolico praticante non avrei alcuna difficoltà a scrivere a caratteri cubitali, in questo spazio libero che mi è stato concesso, "siamo tutti ebrei!".