La scuola desistente
28-11-2006 / A parer mio
di Oscar Ghesini
È ancora possibile per gli insegnanti, nella scuola del nostro tempo, essere qualificati depositari di un solido sapere disciplinare? Ed è giusto che lo siano, oppure occorre investirli di altri compiti? La società, che retribuisce la scuola pubblica di tasca propria, ha il dovere di porsi queste due domande cardinali; e la scuola ha il diritto di sentirsi dare risposte chiare, per potersi attrezzare a soddisfare le aspettative generali. Perché fino a quando la società ha saputo parlarle chiaro, la scuola ha risposto egregiamente, ora che le sta inviando indicazioni contrastanti, ha trascinato la scuola in una crisi di identità.
Nata per eliminare l'analfabetismo, la scuola italiana ha assolto bene il suo compito per 150 anni, rispondendo ai bisogni del paese: le si chiedeva di insegnare a leggere, scrivere e far di conto, con livelli di specificità proporzionali al grado raggiunto dal discente. Negli ultimi trent'anni si è gradatamente imposto alla scuola di disassarsi da questo modello secolare e rigido, imperniato sulla figura del docente padrone del destino dell'allievo ("se non lo apprendi, sei un somaro"), per dare centralità allo studente e ai suoi bisogni ("se non lo apprendi, devo insegnartelo in modo diverso"). Questa autentica rivoluzione culturale ha riversato sugli insegnanti gli oneri di una didattica d'avanguardia, chiamandoli ad acquisire competenze prima non richieste: si è assistito allora ad una tumultuosa frequentazione dei corsi di aggiornamento, centrati su temi quali la costruzione delle unità didattiche, le tassonomie, le tipologie delle verifiche, la docimologia: un'attività frenetica, che si è sommata sulle spalle dei docenti alle ore di cattedra ed a quelle domestiche funzionali all'insegnamento per la preparazione delle lezioni e la correzione dei compiti; questo avveniva mentre già i decreti delegati, attivi dal 1974, immettevano nel corpo della scuola le componenti delle rappresentanze di genitori e studenti, dando vita al sistema degli organismi collegiali: espletati dagli insegnanti attraverso riunioni periodiche atte ad organizzare gli obiettivi trasversali, razionalizzare le attività, mettere a punto i primi progetti extracurricolari; un parto che tra i docenti ha innescato discussioni fiume sui massimi sistemi educativi, comportato cavillosi verbali da compilare, ore di sonno perdute a rimuginare sugli equilibri della classe: di questi nuovi oneri si appesantiva il fardello della loro professione, in alcun modo alleggerita nel carico delle ore frontali.
Gli anni Novanta hanno immesso nella scuola la fresca ventata dell'autonomia. Pensata per creare scuole responsabili di progettare il loro rapporto con il territorio, e in grado di raggranellare qualche soldo con progetti che coinvolgessero le istituzioni locali ed i privati, la legge sull'autonomia è stata però affiancata da un severo "Regolamento per il dimensionamento ottimale delle istituzioni scolastiche" (Dpr 233 del 18 Giugno 1998), che ha imposto l'accorpamento delle scuole in grossi poli, e la chiusura di quelle che non fossero state in grado di mantenere un quantitativo di utenze prefissato da criteri numerici; sono state perciò cancellate le piccole scuole di periferia, in cui il ridotto numero di studenti nelle classi garantiva una didattica 'sostenibile', mentre la spada di Damocle della loro chiusura, tuttora pendente, ha trasformato le scuole sopravvissute in rapaci enti concorrenti, pronti a sottrarsi i potenziali studenti-clienti a colpi di marketing: ascoltateli o leggeteli, anche in questi giorni di orientamento e preiscrizioni, i testi promozionali delle scuole italiane che circolano in televisione o riempiono le pagine speciali dei quotidiani: invitano i genitori ad iscrivere colà gli allievi perché garantiscono il loro stare bene a scuola e la loro centralità. Questa affannosa ricerca di futuri iscritti, allettati con formule che inducono a pensare le scuole come le nuove frontiere dei centri del benessere, costringe gli insegnanti a svolgere anche il ruolo di promotori dell'offerta didattica nelle giornate definite della "scuola aperta", spesso organizzate il sabato pomeriggio o la domenica per favorire l'accesso nelle sedi dei ragazzi e delle loro famiglie (una pratica ormai diffusa e sotto gli occhi di tutti, anche dei silenti sindacati). La necessità delle scuole di 'fare vetrina' ha portato così all'ingrossarsi a dismisura delle loro carte d'identità (i famigerati Pof, i piani delle offerte formative), che prevedono ormai da qualche anno l'attivazione, sempre a carico dei docenti, di 'bruscolini' quali i corsi opzionali pomeridiani ed i progetti di alternanza scuola lavoro: con i quali si allontanano i ragazzi dai banchi, dalla riflessione e dalla conoscenza mediata dai libri di testo per inviarli nelle aziende e favorire, si dice, l'apprendimento in loco delle competenze professionali.
Qualcuno, per favore, dovrebbe spiegare alle famiglie, alle scuole ed alle aziende che ogni giorno perduto di banco è un segmento mancato di acquisizione, per l'allievo, di quelle strategie cognitive globali, e di quelle conoscenze teoriche, che lo aiuteranno ad affrontare con successo ogni 'flessibile' riconversione produttiva a cui sarà chiamato a far fronte nel mondo del lavoro; e che toccherebbe alle aziende sentire come proprio dovere la formazione specialistica delle maestranze dopo la loro assunzione, magari fiduciata da un bel contratto a tempo indeterminato (di occasioni per formarle ne avrebbero, visto che i giovani di oggi lavoreranno quarant'anni): senza sottrarre agli studenti il loro tempo scolastico, atto a curarne la maturazione intellettuale.
Comunque, l'organizzazione dei progetti di alternanza e lo svolgimento dei corsi opzionali, nella stragrande maggioranza dei casi, spettano sempre agli insegnanti della scuola; i quali, sia detto sommessamente perché davvero non è questo il punto, a ricompensa di tale diuturno lavoro che li costringe ormai ad accamparsi dentro la scuola dalla mattina al tardo pomeriggio, non godono neppure del diritto ai buoni pasto (e questo adesso, qualcuno lo rammenti ai sindacati).
La società evolve, del resto, e le sensibilità cambiano. Può allora una scuola che procede su piste concorrenziali, ignorare i nuovi e grandi temi educativi emergenti? Giammai. Ecco perciò le singole scuole, come grandi estuari che tutto accolgono di ciò che sospinge il mare, impegnarsi nella educazione alla salute, in quelle ambientale, sessuale, stradale, sanitaria, alimentare ecc.: pena, al minimo cenno di rifiuto, l'essere tacciate di una rozzezza d'altri tempi, e dunque estromesse dal mercato; ed ecco ancora gli insegnanti, entro un ridotto novero di ore lezione disponibili, che nella scuola sono sovente calcolate in cinquanta minuti per unità (perché gli allievi di oggi, si ripete ormai dogmaticamente, hanno una ridotta capacità di concentrazione), buttarsi capofitto a inoculare nelle classi, quasi a gettone, elementi e pratiche di educazione ai temi citati.
Quella sui grandi temi dell'attualità è poi un'azione pedagogica già lussuosa, perché i genitori che lavorano hanno poco tempo per pensare all'educazione affettiva dei figli; dunque agli insegnanti tocca anzitutto attivare sul discente, spesso ancora nelle scuole superiori, una spicciola azione educativa tesa a sensibilizzarlo al rispetto dei compagni, all'ascolto in aula, ad un comportamento rispettoso degli arredi, al dovere e al metodo dello studio. E se l'insegnante non è ascoltato, quali mezzi ha per farsi rispettare? Nessuno, perché gli esami di riparazione sono stati aboliti da più di un decennio, né il voto di condotta può incidere sull'esito finale degli scrutini.
Manzoni? Ma via! Leopardi! Manco morto! E Napoleone? Oh insomma! La trigonometria? Forse è ingrediente per la culinaria
L'insegnante può ancora studiarsele, s'intende, le cose che ha amato, su cui ha acquisito competenze specifiche e sulle quali si è abilitato convinto di poterle insegnare: purché le ripassi a casa e nei ritagli di tempo, che spesso corrispondono alle ore serali e notturne, con buona pace della Costituzione, dello Statuto dei lavoratori e del contratto di categoria; oppure la domenica, se non c'è la "scuola aperta"; e se proprio, pazzamente, egli ritiene che ancora abbia un senso insegnare ai suoi allievi queste cose, lo farà alla chetichella, sottovoce in classe, compiendo autentici slalom per schivare ora una visita in aula dell'esperto aziendale, ora un'assemblea studentesca, ora un torneo sportivo
Non v'è più alcuna traccia oggi, nella sostanza, di quel docente a cui un tempo era richiesto di studiare in modo permanente la propria disciplina di cattedra, e di praticarla in aula insegnando al mattino agli allievi a scoprirne il fascino, giorno dopo giorno, in forza della continuità e dello spessore degli approfondimenti; di preparare con calma le lezioni per il giorno dopo nel pomeriggio (mentre i ragazzi erano mandati a casa a studiare) e di correggere i compiti; di sfogliare molti libri e frequentare corsi e convegni per aggiornarsi scientificamente: un professionista ammirato per la profonda conoscenza della disciplina, che promuoveva chi studiava e bocciava chi non studiava; e che vinceva il bullismo e l'indisciplina senza proclami, esperendo la sua azione educativa nel quotidiano esercizio del proprio insegnamento disciplinare: perché non esiste alcuna forma di educazione più elevata, per i giovani, della loro acculturazione. Accusato di produrre una scuola classista, egli è stato messo in pensione. Al suo posto, è sorta una scuola onnivora, che millanta di possedere la plurifunzionalità di una città in miniatura: peccato che mentre un tessuto urbano pullula di diversificate professionalità, nella scuola, chissà perché, è richiesto che a tutti i ruoli faccia fronte il docente: non v'è presenza stabile di psicologi e pedagogisti, né di tecnici multimediali (i corsi d'aggiornamento sulle tecniche multimediali sono la nuova fonte a cui gli insegnanti sono invitati ad abbeverarsi copiosamente e senza risparmio di energie: come se la didattica fosse il fine, non il mero strumento per traguardare la conoscenza), né di addetti stampa, né di esperti del marketing: figure di laureati sfornate a migliaia ogni anno dalle nostre università, ma che lo stato non ritiene necessario assumere nelle scuole pubbliche, ed è facile intuirne il perché.
È di modesto avviso dello scrivente che sarebbe tempo di tornare a quel vecchio modello di insegnante e ad una didattica centrata sui tempi lunghi dell'apprendimento, aliena dalla pratica tutta esteriore dei microprogetti a tema scanditi dal computo delle ore, se davvero si volesse offrire ai nostri giovani, attraverso la scuola, il sapere necessario per non mandarli spogli all'appuntamento con un mercato del lavoro globale e sempre più complesso. Ma di parere trattandosi, resta pur sempre opinabile.
Ciò che è certo invece, è che la società non dovrebbe esigere troppi risultati da questa scuola che, per stato di necessità, chiede ai suoi insegnanti di disperdere le proprie energie in mille rivoli, e di farsi ora burocrati ora tecnocrati, ora persino imbonitori e badanti (pagandoli, sia mormorato ancora per inciso, assai meno dei loro colleghi tedeschi e spagnoli); dunque che non si stupisse se la preparazione disciplinare degli allievi, immersi in una scuola più schizofrenica di uno zapping col telecomando, è così scadente da far collocare gli studenti italiani, secondo recenti indagini, al terz'ultimo posto in Europa per livello di conoscenze; una scuola, questa di oggi sì, davvero classista. La società ha messo la scuola in queste condizioni, ti dici: di che si stupisce ora?
Invece alza la voce e leva gli scudi: attraverso quella stessa tivù che quotidianamente parla ai giovani con la sensibilità di un elefante tra cristalli, ed una classe politica che da anni, sta accadendo anche in questa finanziaria, taglia fondi al settore; costoro strabuzzano gli occhi e protestano, accusando la scuola di non sapere educare e di non essere più efficace nell'istruire. Ma che bella scoperta.