Il figlio della Fame
26-01-2007 / A parer mio
di Claudio Cazzola
Rileggendo in questi giorni le commedie di Plauto, autore latino vissuto tra il terzo ed il secondo secolo avanti Cristo, si è verificata la congiuntura di riflettere a voce alta insieme con un eletto uditorio sullo Stico. Il titolo prende nome da quello dello schiavo, Stico appunto, che gioca in questo caso un ruolo molto marginale: egli si limita infatti, comparendo verso la fine della commedia, a fare da accompagnatore del padrone che ritorna. Ma proprio il tema del 'nostos' - cioè del ritorno a casa inaugurato dall'immortale testo dell'Odissea - costituisce il termine di confronto alto per uno spettacolo, quale quello comico, destinato soprattutto a far divertire un pubblico di non eccelse pretese. L'argomento della trama è molto semplice, e soprattutto vicinissimo alla realtà delle cose: due uomini sono partiti per mare a cercare fortuna, lasciando a casa da sole le rispettive spose, due sorelle; il padre di costoro, volendo approfittare del fatto che i generi non dànno da tempo ormai notizie di sè, tormenta le figlie, forte della propria patria potestas, affinchè ritornino alla casa paterna e accettino nuove nozze, fonte sperata di reddito per il vecchio avarus. Le mogli tuttavia resistono, pur adducendo argomentazioni diverse, ma resistono: ed il lieto fine è dietro l'angolo, con il rientro appunto improvviso ed ormai insperato dei mariti, ovviamente arricchiti. Ora, c'è un personaggio che se la passa molto male, in codesta prolungata asswenza dei padroni di casa: si chiama Gelasimo, e di mestiere fa il parasitus, colui cioè che, come dice il termine, "mangia accanto", infilandosi nelle mense altrui per cercare di sbarcare il lunario. Privo di mezzi per vivere, incapace di una professione attiva, inorridito all'idea di adattarsi ai mestieri servili, è sempre alle prese con una vera e propria ossessione alimentare. Ebbene, in un lungo monologo (dal verso 155 al verso 269) Gelasimo si presenta al pubblico utlizzando un corredo lessicale paradossale, atto a suscitare quel riso felice e liberatorio, per il pubblico s'intende, preannunciato dal significato del suo nome proprio ("colui che fa ridere"). In primo luogo, si autodefinisce figlio della Fame. Ora, a Roma, la linea di successione è rigorosamente patrilineare, per cui un individuo acquista la propria identità in base al nome della famiglia paterna, la gens: rovesciando i termini usuali e usurpando il nome materno, il parassita compie consapevolmente un'infrazione, di cui il pubblico non può non avvedersi. Questo in primo luogo; in secondo luogo, il nome della madre è quello della Fame, un vocabolo che rimanda ad una nozione di vuoto assoluto, di assenza totale. Infatti egli ironizza pesantemente sulla maternità, sulla gestazione, sul parto - tutti elementi molto seri socialmente parlando; afferma che, mentre la madre lo ha portato in grembo per dieci mesi, lui viceversa la porta con sè, nella propria di pancia, ormai da più di dieci anni - non solo, ma mentre la madre lo ha tenuto mentre il figlio era piccolissimo e leggerissimo, lui invece è costretto a gestire un peso immenso e schiacciante, come appunto quello della fame (con l'iniziale minuscola). Una fame da elefante, si lamenta il poveretto, visto che nel mondo antico si riteneva che la gravidanza di questo animale durasse appunto tanto. Un immenso ventre vuoto, pieno com'è di ansia sempre nuova e sempre più impellente di trovare qualcosa da ingerire. Con un parassita al centro dell'attenzione il divertimento è assicurato, oggetto come egli è di scherno, di beffe, di prese in giro, vero e proprio capro espiatorio di un gruppo sociale superiore che ha bisogno di lui, inferiore, per sfogare la propria voglia di potenza - esattamente come fanno, nel modello 'serio' dell'Odissea, i Pretendenti di Penelope nei confronti del mendicante senza arte nè parte accompagnato alla reggia dal porcaio Eumeo, quel "pitocco" ( ptochòs in greco) sotto le cui mentite spoglie si nasconde l'eroe Odisseo. Per rendersi conto di che cosa possa provocare la fame non c'è che l'imbarazzo della scelta, ma restando ancora nel campo della letteratura è istruttivo un confronto con Le avventure di Pinocchio (Storia di un burattino), la cui prima puntata Collodi pubblicò il 7 luglio 1881 sul primo numero del "Giornale per i bambini". Ebbene, nel capitolo quinto, ecco il nostro eroe, pure lui senza arte nè parte, generato soprattutto per far divertire il pubblico ("ma la gente che era per la via, vedendo questo burattino di legno, che correva come un barbero, si fermava incantata a guardarlo, e rideva, rideva e rideva, da non poterselo figurare" terzo capitolo), alle prese appunto con la fame: "Intanto cominciò a farsi notte, e Pinocchio, ricordandosi che non aveva mangiato nulla, sentì un'uggiolina allo stomaco, che somigliava moltissimo all'appetito. Ma l'appetito nei ragazzi cammina presto; e di fatti dopo pochi minuti l'appetito diventò fame, e la fame, dal vedere al non vedere, si convertì in una fame da lupi, una fame da tagliarsi con il coltello". Ora, quando la fame è davvero endemica, provoca alterazioni psico-fisiche da far paura, come quella subita dal nostro Pinocchio, che crede di vedere una pentola in ebollizione sul focolare, mentre altro non è che un miraggio, dovuto al deliquio dei sensi - e infatti si tratta di una pittura sul muro; e non basta, ma pian piano egli scende tutti i gradini della degradazione vitale, prima sbadigliando (perdita del respiro), poi sputando (perdita della linfa interna), fino a che "sentiva che lo stomaco gli andava via". In questo viaggio di discesa in basso egli giunge a toccare il fondo, il punto più nero della disperazione, il proprio inferno interiore: proprio qui l'arte finissima di quel prestigiatore di Collodi, vero emulo plautino, tira fuori dal cappello nientemeno che la spazzatura, perchè il fondo comico sempre si affermi: "Quand'ecco gli parve di vedere nel monte della spazzatura qualche cosa di tondo e di bianco, che somigliava tutto a un uovo di gallina". La cosa più semplice ma anche la più complessa, quell'uovo il cui guscio compatto e fragile insieme nasconde il segreto inestricabile della vita - l'uovo, che per gli adepti agli antichi Misteri sta in principio di tutte le cose. Ma nemmeno da tale sperato nutrimento può Pinocchio trarre giovamento, perchè il contenuto, una volta aperto il guscio, vola via nella persona di un vispo uccellino, che ha pure la beffarda destrezza di ringraziare il malcapitato burattino per l'aiuto fornito. Pinocchio e Gelasimo avranno sempre fame, condannati come sono ad una marginalità senza riscatto: creature dell'arte sì, ma ben riscontrabili nella vita quando essa è dominata dalle norme sovrane del profitto economico in tutti i tempi, e ancor di più oggi, laddove la nostra economia globalizzata causa con i suoi squilibri mondiali milioni e milioni di "pitocchi figli della fame".
* in memoria di Don Franco Patruno, insegnando con il quale tanto ho imparato. (C. C.)