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L'incontro newyorchese fra Antonioni e Rothko

24-10-2007 / A parer mio

di Maria Paola Forlani

Rare sono state le occasioni in Italia di assistere a una grande mostra monografica dedicata al pittore americano di origine russa Mark Rothko; si ricordano solamente l'unica retrospettiva dell'artista vivente, organizzata dal Museum of Art di New York, portata nel 1962 a Roma e presentata alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna, o quella commemorativa a Ca' Pesaro, in occasione della Biennale di Venezia del 1970, subito dopo la sua tragica morte. Questa retrospettiva su Mark Rothko, curata da Oliver Wicks, grande evento per l'apertura del Palazzo delle Esposizioni, si presenta come occasione unica in Italia per vedere riunite così tante opere di uno dei più grandi artisti del secolo scorso. Mark Rothko (Rothkowitz) emigrato negli Stati Uniti nel 1913, dal '21 al '23 studiava presso la Yale University; nel '26 all'Art Student's League di New York con Max Weber. Nel '35 egli fondava, con altri artisti, il gruppo di tendenza espressionista "The Ten"; dal '36 al '37 lavorava al W.P.A. Federal Art Project a New York. Dal '39 al '52 insegna alla scuola per bambini della Center Academy di New York. Nel '45 esporrà nella galleria di Peggy Guggenheim le sue prime opere, per le quali è evidente l'ascendente surrealista di Mirò e Masson, anche se già in quelle si determinarono rapporti di rifrazione o di rispecchiamento, secondo quell'impostazione del quadro che gli sarà costante. Fra tanto, nel suo lavoro, si assiste ad una progressiva esclusione di ogni intrico formale; ad ogni tappa successiva è come se egli abbandonasse qualche elemento visivo per acquistarne uno spirituale. Da un mondo visivo di fantasia nel quale si enucleavano immagini di flora marina, egli passava, allora, ad un elaborazione di macchie di colore, evocanti una vita subacquea. In seguito le macchie si allargavano, vicine fra loro per rapporti tonali, si disponevano in formazione nebulose, rettangolari, dai bordi sfrangiati e indefiniti, su due zone sovrapposte. Di mano in mano i quadri di Rothko assumono proporzioni sempre più dilatate; si fanno spazio, definiscono il piano della perfezione; con una concretezza visiva, una densità e una profondità così positivamente reali, da potersi, una volta tanto e solo per analogia, applicare alla sua visione il concetto indiano di "ekaghana", che indica appunto la pienezza, la sostanzialità, la totalità delle immagini. Le grandi superfici colore-spazio di Rothko sono ottenute per sottili, quasi trasparenti e liquide velature di colore, in cui la luce penetra attraversandole "come attraverserebbe una lastra di mica". La luce è, in se stessa, incolore; l'amica trasparente. Ma nello spessore minimo della lamina avviene un processo di rifrazione; lo spessore agisce, sebbene imperfettamente, come un prisma: isola e rifrange certi raggi, altri ne lascia passare trasmettendoli allo strato sottostante. Alla fine del 1962 Michelangelo Antonioni andò a trovare Mark Rothko a New York. Antonioni si trovava nella "Grande Mela" per la prima dell'Eclisse, che registrò un grande successo di critica; in quell'occasione chiese e ottenne un appuntamento col pittore nel suo studio. Il regista portò con sé un interprete e la sua musa cinematografica Monica Vitti. Rothko nel mostrare le sue opere era molto in ansia, sotto l'occhio ammirato del regista e gli disse tramite l'interprete che entrambi trattavano lo stesso soggetto: il nulla (nothingness). Un'importante testimonianza dell'opinione di Antonioni sull'opera di Rothko ci viene da una lettera finora inedita che il regista ferrarese scrisse all'artista nella primavera del 1962 <>. Nei primi anni sessanta, l'evoluzione formale dell'arte di Antonioni è rappresentata dalla celebre quadrilogia da "L'avventura", "La notte", "L'eclisse" e "Deserto rosso". E' quest'ultimo film (del 1963), tuttavia, a rivelare palesemente l'interesse del regista italiano per recenti sviluppi della pittura astratta in Europa e negli Stati Uniti e soprattutto per il lavoro di Rothko. Lo stesso Antonioni ammetteva che, dal punto di vista formale, il "deserto rosso" rappresentava l'inizio di un nuovo orientamento nella sua opera, una definizione poi divenuta luogo comune della critica. L'elemento in cui si ravvisa più chiaramente l'influenza di Rothko è l'inquadratura dello spazio. Il pittore, infatti, dipingeva la tela fino ai margini estremi e voleva che i suoi dipinti fossero installati senza alcuna cornice, in modo tale che i margini fossero esposti, dal punto di vista fisico e percettivo, allo spazio circostante. Ed è proprio questo lo schema compositivo, presente in pratica in tutti i quadri realizzati da Rothko dopo il 1949, che Antonioni trasporrà esplicitamente nel "Deserto rosso", dove è utilizzato come immagine, come strumento della composizione, nei paesaggi svuotati del "temps mort". Il tempo morto permette di comprendere come l'interesse specifico del regista per l'opera del pittore sia focalizzato sull'esperienza duratura che l'osservatore ha del proprio Io all'interno della dimensione fisica (lo spazio reale) di un oggetto metafisico: cioè sulla spazializzazione del tempo.