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Le mamme non muoiono

14-08-2007 / A parer mio

di Andrea Poli

"Le mamme non muoiono". Il telegramma di Teresa è una fiammella che ingigantisce dentro al buio assoluto del dolore. Incomparabilmente più forte, il dolore, e profondo di quanto me l'ero immaginato. E' vero, le madri non muoiono mai veramente. E i padri, anche; le persone che ci hanno messo al mondo e poi instradato all'esistenza continuano a camminare la vita attraverso noi. Giorno dopo giorno, quello che loro sono stati si trasfonde senza quasi che ce ne accorgiamo nei nostri comportamenti, i rapporti con gli altri, la famiglia, il lavoro, il denaro, in tutto. Tocca a noi che restiamo non tradire l'eredità morale di chi se ne va: quello, sarebbe farlo morire per davvero e irrimediabilmente; e dunque spetta a me di interrogarmi su che cosa mia madre ha lasciato quaggiù, e se davvero mi ha lasciato qualcosa che valga la pena di cercare a mia volta di riversare nei miei figli con l'unico metodo che abbia una qualche speranza di non andare fallito, la forza dell'esempio. E, certo, quel qualcosa esiste naturalmente, e sta tutto nell'estrema dignità, nella straordinaria compostezza del sorriso amaro che le si leggeva in viso quando l'andavamo a tirar su di peso da terra, e tre e quattro volte negli ultimi giorni, avvisaglia crudele dell'emorragia che l'avrebbe infine sradicata come una quercia malandata sotto la tempesta. Il sorriso consapevole ma non rassegnato di chi guarda la vita negli occhi e le dice: vedi come mi hai ridotto, ma non sperare di spaventarmi. E nello sguardo che, mentre la rimettevamo in piedi e ci diceva, come sempre senza lasciarsi sfuggire una lamentazione: a ssòn scapuzàda, sono inciampata, sembrava chiederti scusa per il disturbo. Ecco, vorrei portare davvero al mondo questa saggezza antica di mia madre, la capacità di vivere la vita in punta di piedi, accettando le prove più dure come pedaggio inevitabile dell'esistenza, la serenità con la quale diceva al medico che doveva soltanto toglierle dei noduli al seno e invece le aveva tagliato via tutta la mammella: "Dutòr, al m'a fat un bel scherz, era!", mi ha fatto uno scherzetto. Così, semplicemente, come se stesse parlando del tempo e non fosse reduce invece da un'operazione chirurgica devastante.
Non so se sarò all'altezza, sai, ma ti assicuro che ci proverò con tutte le mie forze, a non tradire la tua grande, grande lezione di vita. Promesso. Però scusami: anche se sono abituato a giocare con le parole, non riesco a trovare quelle giuste per un ultimo saluto, sarà questo grumo di frasi non dette e di abbracci mai dati che mi annebbia il cervello e mi prende in un vortice di sensi di colpa. Non ti dispiacerà se prendo a prestito quelle, nobili, dello scrittore Gianfranco Rossi: "Allontanati pure, ombra paziente e mite, ma il tuo passo sia lento mentre indichi a noi che restiamo il cammino da percorrere. Allontanati pure. Nulla potrà strapparti da qui. Sarai nubi e vento, torrenti e neve, fiori e raggi di sole. Allontanati pure. Sarai mani che si protendono in un abbraccio sconosciuto, voci che salutano, sorrisi da ricordare, silenzio di notti serene".
Ciao, vecchia popolana saggia. Ci vediamo da qualche parte, un giorno o l'altro.