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In bibicletta con Bassani

14-09-2007 / A parer mio

di Claudio Cazzola

«Sono stato molte volte infelice, nella mia vita, da bambino, da ragazzo, da giovane, da uomo fatto; molte volte, se ci ripenso, ho toccato quel che si dice il fondo della disperazione. Ricordo tuttavia pochi periodi più neri, per me, dei mesi di scuola fra l'ottobre del 1929 e il giugno del '30, quando facevo la prima liceo. Gli anni trascorsi da allora non sono in fondo serviti a niente: non sono riusciti a medicare un dolore che è rimasto là come una ferita segreta, sanguinante in segreto. Guarirne? Liberarmene? Non so se sarà mai possibile.»

Pagina iniziale di un diario d'amarezze e sconfitte, con vie d'uscita già negate in partenza; sulla pelle scorticata con violenza viene sparso il sale della desolazione intinta nel peggior pessimismo possibile. Ma chi è questo «io» che proclama a se stesso e al mondo tanta cupezza da disperato?
Si tratta del protagonista, il cui nome non viene mai dichiarato, del quarto libro del «Romanzo di Ferrara», pubblicato per la prima volta nel 1964 presso l'editore Einaudi, con - in sovracoperta - una riproduzione di «Interno» del pittore Carlo Corsi. La quasi maniacale puntualizzazione iniziale non è fuori luogo, per chi conosca appena la dinamica del curricolo di liceo classico anteguerra: nel passaggio dal ginnasio superiore (le attuali quarte e quinte ginnasio) al liceo funzionava da feroce macchina selezionatrice un esame, davanti ai professori non del biennio appena vissuto bensì del triennio futuro. Ecco allora che la falcidia si abbatteva su classi intere, per cui occorrevano in genere due quinte ginnasiali per formare una sola prima liceale - proprio quello che accade al Nostro eroe, che si trova appunto «spaesato, profondamente a disagio» nel nuovo contesto, dopo aver ingoiato la suprema delusione nel vedere l'amato professore di lettere del biennio «sparire alla testa della sua nuova quarta giù per il corridoio del ginnasio». E questo non basta: alla disgregazione delle fin qui granitiche certezze adolescenziali si aggiunge la presenza, nella nuova classe, di Carlo Cattolica, il campione indiscusso del corso A (il nostro proviene invece dalla sezione B), che siede da solo nel quarto banco - «a significare magari che nessuno poteva vantare titoli sufficienti a stargli a lato» - bravissimo in tutto, slanciato ed aitante, abile perfino del gioco del calcio, un eroe omerico:

«Correva, osservavo, in maniera diversa da tutti gli altri, me compreso, che niente bastava a distrarci, a farci cambiare strada. Avanzava guardando tranquillo dinanzi a sé: come se fosse l'unico, lui, fra tanti, a sapere con certezza dove dirigersi.»

Da tale situazione di imbarazzante inferiorità l'io narrante non vuole affatto uscire, anzi, contro se stesso infierisce, collocandosi, da solo, nell'ultimo banco, mordendosi in segreto l'anima per non essere considerato degno di stare alla pari con il migliore - per esempio, essere invitato, come pochissimi altri, in casa di Cattolica, in via Cittadella, a fare i compiti al pomeriggio. Ma ecco che un lunedì, proprio al rientro dalle vacanze natalizie, fa il suo ingresso inopinato in aula un nuovo allievo, tale Luciano Pulga, che appare subito spaesato, senza arte né parte, sottoposto com'è all'interrogatorio feroce e sarcastico del professore di greco, a beneficio di tutta la classe plaudente: solo il Nostro va in soccorso del naufrago, lo accoglie nel banco, gli permette di fare anche lui la versione di greco, concedendogli di copiare, nonostante la spietata sorveglianza dell'insegnante. Pian piano Luciano si insinua nella vita dell'io narrante, il quale viene lusingato nel suo amor proprio dalla costante, sotterranea opera di adulazione dell'altro; ospitato nella casa di via Cisterna del Follo, si fa benvolere dalla madre, che per così dire lo adotta - insomma, un cenacolo piccolo fin che si vuole ma, agli occhi del Nostro, alternativo a quello del «celebre Cattolica».
Questa precaria stabilità però non tarda ad incrinarsi, allorchè - finalmente - anche l'io narrante riceve un invito in via Cittadella, atto che sarà l'inizio della fine, contrariamente alle di lui aspettative segrete. Infatti, e qui sta la motivazione della scelta del soggetto pittorico di Carlo Corsi, proprio nell'interno dell'abitazione, dietro la porta della camera da letto dei genitori di Cattolica, egli è costretto ad udire ciò che pensa veramente di lui Luciano, l'ospite tanto carezzato: dopo aver eseguito della madre del Nostro un ritratto non certo rispettoso, come dimostra un piccolo segmento

«Era una signora sui trentatré, trentacinque anni - proseguì -, magari un po' "sfasciata" come sono sempre le ebree, ma però con una bocca tale, con certi occhioni "marron", e con certe occhiate, specialmente …»

Luciano affonda il coltello nella psiche dell'amico, imprimendovi una, appunto come scritto nella prima pagina del romanzo, ferita sanguinante:

«Ma sì. Ero di sicuro un "finocchio", sia pure allo stato potenziale: un "busone" in attesa soltanto di "saltare il fosso", e tuttavia ignaro (questo, il tragico!) della bella carriera che mi stava davanti, inevitabile … […] Ha voglia, lui, di darci dentro col latino, col greco, eccetera, tanto la sua carriera quale volete mai che possa essere all'infuori di quella là?»

ed a questo punto il ragazzo non ce la fa più: sarebbe il momento giusto per aprire quella dannata porta, farsi vedere tutto intero, pretendere finalmente una resa dei conti - ed invece no: al posto della lotta corpo a corpo, ecco la fuga:

«Nel buio fitto ero sceso giù per le scale, avevo ritrovato in tinello la bicicletta, e quindi fuori, all'aria, a pedalare a testa bassa in fretta. Via Cittadella, viale Cavour, corso Giovecca: avanti, senza fermarmi mai, come dentro un tunnel buio, dritto, senza fine …»

Non lasciamoci sfuggire l'itinerario, tracciato, come al solito, con estrema esattezza. Si parte dalla zona nord della città, ci si dirige sull'asse viario principale e, svoltando a sinistra, si imbocca il grande fiume Cavour-Giovecca e lo si percorre fino in fondo, ove, proprio un attimo prima della Prospettiva, si prende a destra via Ugo Bassi per approdare, infine, ancora a sinistra, in via Cisterna del Follo al numero 1. Si tratta di un vero e proprio viaggio di iniziazione, a guisa di quelli compiuti dagli eroi del mondo classico (Odisseo, Enea, per non parlare del pellegrino Dante); lo spazio settentrionale come luogo del gelo, del freddo, della immobile spietata verità solo ascoltata, proprio come la profezia dell'antica Sibilla - ed all'opposto il sud, riverberato e riscaldato dal calore del fuoco materno, come regolarmente accade all'eroe una volta sbarcato a casa, a digiuno come ogni aspirante ai misteri:

«Non appena in camera mia, mi spogliai, mi infilai sotto le lenzuola, spensi la luce, e chiusi gli occhi. Rimasi così una decina di minuti. Il sonno non veniva. Stavo per tirarmi su e rivestirmi, quando intesi nel corridoio il passo della mamma. Si fermò davanti alla porta. La udii chiamarmi sottovoce, quindi la camera si riempì della sua presenza. Che noia! - pensavo furibondo, fingendo di dormire -. La sentivo lì accanto, alta e silenziosa sopra il mio corpo disteso, e avrei voluto alzarmi, insultarla, picchiarla, cacciarla via. Ma ecco leggera, fresca e leggera come mai, la sua mano scendere attraverso il buio a toccarmi la fronte e a posarvisi. Bastò questo. Non mi ci volle altro perché di lì a poco, di nuovo solo, fossi immerso ancora una volta dal mio vecchio, riparatore sonno di bambino.»

Il cerchio si è chiuso, l'adolescente, come in ogni «discesa alle Madri» che si rispetti, è ritornato indietro, fino a rientrare nell'utero materno. Da via Cittadella a via Cisterna del Follo.
In bicicletta.
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Il testo di «Dietro la porta» si trova alle pp. 579-699 della ben nota Guida: G. Bassani, Opere, a cura di R. Cotroneo, Mondadori, Milano, 2001