Ascoltare l'Odissea: Euriclea
30-04-2008 / A parer mio
di Claudio Cazzola
L'eroe, sbarcato nell'isola di Itaca a sua insaputa dalla nave degli invitti Feaci, ritrova l'alleata di sempre, la dea Atena, che gli promette aiuto e collaborazione per tessere inganni mortali ai Pretendenti di Penelope, la regina senza marito. Toccato dalla verga di lei, egli subisce una metamorfosi completa, da uomo adulto nel pieno delle sue forze in pitocco, un personaggio che si colloca nel gradino più basso della sfera sociale e che quindi può, strisciando sul suolo, infilarsi dentro il palazzo - proprio come gli è riuscito di fare in Troia. Subite le angherie dei Pretendenti sempre per volontà della sua augusta protettrice, su ordine di Penelope egli viene lavato nelle estremità posteriori, come da protocollo religioso che gli consente piena accettazione nel nuovo ambiente; come da sua richiesta, l'azione della ripulitura è affidata dalla regina ad Euriclea, «nutrice»: ruolo delicatissimo, essendo un tale personaggio depositario dei segreti di colui che essa ha allevato, prima Odisseo poi Telemaco. Ecco che quelle mani che un tempo hanno fatto venire alla luce una nuova vita, ora sentono - pur nel buio della vista - la cicatrice sopra il ginocchio, quella inferta da un cinghiale nel corso della prima battuta di caccia cui Odisseo ha partecipato nel territorio del nonno materno Autolico, come vero e proprio rito di passaggio dalla minore alla maggiore età. Attraverso questo particolare personaggio dunque scatta nella memoria del cantore il ricordo dell'antefatto archetipico per eccellenza, quello della imposizione del nome ad un nuovo nato: proprio ad Autolico, e non al nonno paterno né, tantomeno, al padre legale, Euriclea pone sulle ginocchia il bambino, affinchè sia lui, contro ogni consuetudine patrilineare, a scegliere come sarà chiamato: «Figlia e genero mio, mettetegli il nome che dico: / io venni qui, odio covando contro di molti, / uomini e donne, sulla terra nutrice; / dunque Odisseo sia il nome.» (Odissea, libro 19, vv. 406-409 traduzione di Rosa Calzecchi Onesti). «Odysseus = uomo dell'odio» è l'equivalenza che ci viene suggerita in questo passo, che è unico nel suo genere: da un lato, attraverso tale nomenclatura, che greca non è, la cultura greca cerca di impadronirsi di un personaggio che è frutto di una lunga ed elaborata costruzione intellettuale precedente, e dall'altro ci spinge a cercare nuovi approcci al poema medesimo. Come si concilia infatti «uomo dell'odio» con certe letture stereotipate, tanto convenzionali quanto ripetitivamente inutili e noiose? E che dire di Autolico, dal nome parlante («il lupo in persona», «proprio il lupo»), figlio di Hermes, il dio dei ladri, dei furfanti, dei briganti, e per questo della furbizia, dell'espediente, del tranello, della capacità di cavarsela sempre anche nelle situazioni più disperate? Basti la testimonianza contenuta nel frammento 67b (edizione Merkelbach-West) del poeta Esiodo, vissuto fra l'VIII ed il VII secolo a. C., la cui fonte è costituita dal dizionario greco detto Etymologicum magnum, sotto il vocabolo "aeidelon":
aeidelon (tr. "invisibile") riguardo a ciò che non si vede; si servì di questa parola Esiodo a proposito di Autolico; dice infatti: «quello che prendeva in mano tutto rendeva invisibile». Questo medesimo, che era ladro, rubava i cavalli e li mutava d'aspetto; cambiava il colore del manto.
Se il nonno riusciva a fare questo con i cavalli, immaginiamoci il nipote, e con il cavallo troiano e con tutto il resto.
Ascoltare per credere.