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In scena

20-05-2008 / A parer mio

di Claudio Cazzola

Secondo l'autorevolissimo parere degli studiosi operanti presso la Biblioteca di Alessandria d'Egitto (quarto-terzo secolo avanti Cristo), l'Odissea 'genuina' termina al v. 296 del ventitreesimo libro, laddove la coppia a lungo divisa e faticosamente riunita raggiunge - così ivi il testo in traduzione - il «legame dell'antico letto». Ne discende che il prosieguo dell'opera è chiaramente frutto di una rielaborazione redazionale successiva, ove ad Odisseo viene assegnato, in terza persona, il riassunto dei libri dal nono al dodicesimo, prima, e, in prima persona poi, l'anticipazione della visita al padre, che sarà materia della seconda parte del ventiquattresimo ed ultimo libro. In effetti il libro "omega" è diviso in due sezioni nettamente distinte: nella prima (vv. 1-204) veniamo condotti dalla verga d'oro del dio Ermes - accompagnatore delle anime dei centootto Pretendenti trucidati - nell'Ade, ove assistiamo al riassunto della seconda parte dell'Odissea (libri 13-23) per bocca di Anfimedonte, uno degli uccisi, che racconta, su esplicita richiesta di Agamennone, la triste fine sua e dei compagni grazie agli inganni e di Penelope (la tela) e dello straniero spalleggiato dal porcaio, dal bovaro e da Telemaco. Si noti la presenza di Agamennone, filo forte di tenuta del confronto - costante nell'Odissea fin dal primo libro - fra due nostoi (ritorni) eccellenti, e quindi di converso fra due figure femminili fortissime, quali sono quelle di Penelope e di Clitennestra - con Elena sempre a fare da terza (e che terza!). Dalle profondità del mondo delle ombre siamo ricondotti bruscamente con il v. 205 alla terra di Itaca, ed in particolare in campagna, fuori dal palazzo, là dove il vecchio Laerte si consuma la vita lavorando duramente come un salariato qualsiasi: davanti a lui il nostro eroe inventa l'ennesimo, ed ultimo, nome falso, quello di Eperito, supposto figlio di Afidante, signore di Alibanto - ove sia questo luogo lo sa solo la mente polimorfa di colui che lo inventa -; il solito depistaggio cui l'ascoltatore paziente di tutta l'opera ormai è ben assuefatto, in quanto si prepara (l'ascoltatore sagace) a gustare l'estrema creazione intellettuale del nostro aedo, quella del giardino dell'infanzia, il kepos (v. 338) della felicità inconsapevole ammannita come prova suprema della propria identità («E poi anche gli alberi del ben disposto frutteto dirò, / che un giorno tu mi donasti, te li chiedevo a uno a uno, / ancora bimbo, intorno per l'orto [kepos] seguendoti; / dall'uno all'altro / andavamo: e tu li nominavi e li dicevi a uno a uno: / peri me ne donasti tredici, e dieci meli, / e fichi quaranta; viti mi promettesti di darmene / cinquanta ecc.» libro 24, vv. 336-342 traduzione di Rosa Calzecchi Onesti). Non è forse questo un Eden, un Paradiso Terrestre, ove il Padre colloca il Figlio assegnando ed insegnando a lui il nome dato alle piante? Questa terra è la vera Itaca, perché Itaca è il viaggio, come una volta per tutte ha poetato Costantino Kavafis, che ora ascoltiamo. E dopo aver attinto per un attimo al mistero del mito greco, proviamo a chiudere - provvisoriamente - il nostro itinerario con l'ultima lirica della raccolta di Gesualdo Bufalino, L'amaro miele, Einaudi, Torino, 1996 (sullo schermo, intanto, la riproduzione delle Muse inquietanti di Giorgio De Chirico, 1916):
La vita non sempre fa male, / può stracciarti le vele, rubarti il timone, / ammazzarti i compagni a uno a uno, / giocare ai quattro venti con la tua zattera, / salarti, seccarti il cuore / come la magra galletta che ti rimane, / per regalarti nell'ora / dell'ultimo naufragio / sulle tue vergogne di vecchio / i grandi occhi, il radioso / innamorato stupore / di Nausicaa.
Il titolo della poesia? Non poteva essere più allusivo, più suggestivo, più odissiaco e basta:
Risarcimento.