I profani si fanno profeti
03-08-2006 / A parer mio
di Giuliana Berengan
"I giovani presuntuosi e frustrati a causa della stupidità e insieme dell'irraggiungibilità dei modelli loro proposti dalla scuola e dalla tv tendono inarrestabilmente ad essere aggressivi fino alla delinquenza o passivi fino all'infelicità (che non è una colpa minore)". Sono passati più di trent'anni da quando Pier Paolo Pasolini esprimeva con la cruda lucidità che gli era propria una delle sue profetiche verità. C'è dunque stato un tempo, e neppure troppo lontano, in cui l'intellettuale ha avuto la capacità e la forza di assumersi il ruolo di profeta ossia di essere "colui che annuncia, che dichiara prima" ciò che accadrà, secondo il significato della parola greca prophetes. Certo non si trattava più di rivelare agli uomini la volontà del dio; le profezie non erano più gli enigmatici versi che la Sibilla Cumana, ispirata da Apollo, scriveva su foglie di palma, ma andavano a toccare la capacità di farsi interprete, con profonda, sofferta autonomia ed umanissima lungimiranza, dei destini sociali e degli eventi storici. Con un significativo passaggio di campo d'azione più ancora che di area semantica l'intellettuale-profeta metteva la propria capacità, la propria intelligenza al servizio di una cultura alta, capace di fare da medium tra il libero pensiero, partecipe, sensibile, ma anche affrancato dall'immediatezza del quotidiano e la politica, per sua natura radicata e coinvolta nella problematicità del contingente. Non più un profetare inerente al sacro bensì una profezia laica ossia "non consacrata" secondo il significato dell'aggettivo greco laikos che rimanda a laos, il popolo escluso dal potere religioso. E se è vero come sosteneva Vittorini che "la politica agisce in genere sul piano della cronaca mentre la cultura non può non svolgersi, all'infuori di ogni legge di tattica e di strategia, sul piano diretto della storia" certamente quel profetare non chiesastico ha avuto parte determinante, benché spesso contrastata e scomoda, nel mantenere aperte le contraddizioni, nell'indicare sempre vie inusuali per tendere alla verità senza pretendere di possederla. Proprio in quella visione disincantata ma anche illuminata da un sapere profondo, autonomo, capace di uscire dagli sbarramenti confessionali e ideologici poteva esprimersi un pensiero come quello di Pasolini che, pur amando fino a morirne quel popolo escluso dal tempio del potere, vedeva e dichiarava i rischi e le conseguenze di un progresso ingozzato di illusioni ma privo di nutrimento per la coscienza individuale. Oggi, venute meno le argomentazioni che provocano dibattito critico sostituite da affermazioni insindacabili, lanciate come slogan pubblicitari dove dobbiamo cercare la parola profetica? In una fase di banalizzazione della democrazia quando tutti propongono certezze e si fanno venditori ansiosi di scoprire che cosa vogliono i loro "clienti" dove va a finire il rapporto difficile ma imprescindibile fra politica e cultura? Come e quando il pensiero elevato, consapevole di essere partecipe della scintilla divina tornerà a svolgere il suo ruolo di medium fra la gestione spicciola del quotidiano e la liberatoria capacità di immaginare il futuro? Certo non ho risposte ma mi piace pensare di scrivere queste domande su foglie di palma come enigmatiche profezie da interpretare, anche se sono consapevole di correre qualche rischio: i profani che per i Latini "stavano davanti (pro) al recinto sacro (fanum)" ovvero erano coloro che dovevano stare fuori dal tempio poiché non erano iniziati al culto si sono fatti tutti profeti, ci rivelano le verità ricevute dal dio televisivo e rispondono con disinvoltura ad ogni domanda. E potrebbero anche proporre di sostituire al dialogo impegnativo e poco spettacolare fra intellettuali e politici un bello scontro gladiatorio fra un comico sapiente e un rappresentante del potere. E così se i profani si fanno profeti, se giullari e mercanti entrano nel tempio ho il serio timore che una risata ci seppellirà.