Disobbedienza (don Minzoni)
18-08-2006 / A parer mio
di Girolamo De Michele
In agosto ricorre l'anniversario della morte di Giovanni Minzoni, il parroco di Argenta assassinato dai fascisti nel 1923. In un borgo ormai asservito al fascismo don Minzoni era rimasto, dopo l'assassinio di Natale Gaiba - il sindacalista che aveva osato toccare gli ammassi di grano del Molino Parisio - l'unica voce di dissenso in Argenta: prese pubblica posizione contro Mussolini durante le sue omelie, scrisse una vibrante lettera al capo dei fascisti di Argenta che stava preparando il suo assassinio, e pochi giorni prima della morte, insolentito da due fascisti davanti a un'osteria, dapprima insegnò loro la buona creanza a suon di sberle (era, anche fisicamente, una specie di John Wayne romagnolo), poi trascinò i due gaglioffi davanti al loro capo per ottenerne le scuse, e infine riportò i due all'osteria e offrì da bere. Doveva morire, e morì, col cranio fracassato da una bastonata "di stile" (così Italo Balbo e Nello Quilici definivano i colpi che rompevano l'osso) assestatagli da due sicari casumaresi chiamati, nascosti e coperti dai fascisti argentani, successivamente protetti da Balbo e assolti in un processo-farsa che segnò l'inizio della svolta totalitaria. Con un'arroganza che avrebbe fatto scuola, l'avvocato De Marsico illustrò in quell'aula la concezione fascista della giustizia, secondo la quale chi comanda ha forza e ragione, in nome del consenso politico accordatogli o preteso, di stravolgere le regole del diritto a proprio uso ed abuso.
La morte di don Minzoni è uno di quegli eventi ormai ritualizzati e calendarizzati, cioè - al di là delle dichiarazioni di facciata - inseriti nell'anticamera del dimenticatoio. Qualcuno (erede spirituale dei suoi assassini) sostiene persino che non fu ucciso per ragioni politiche, ma per oscure ragioni di sesso. In verità la volgare diceria dell'amante di don Minzoni fu creata da Italo Balbo, probabilmente imbeccato da un sacerdote di Boccaleone, sulla base della ricevuta di pagamento di un abito femminile che don Minzoni pagò di tasca propria per dare un degno vestito ad una povera compaesana che doveva presenziare ad una funzione religiosa. Altri sostengono che don Minzoni non svolgeva attività politica contro il regime, ma si limitava a rivendicare l'autonomia delle sue istituzioni educative, e che solo per questo fu ucciso (una discussione pedagogica tra gentiliani e seguaci di padre Gemelli che trascese i limiti, pare di capire). Il fatto è, come sostengono i suoi detrattori, che don Minzoni era un disobbediente: disobbediva, nello spirito e nella pratica, alla Chiesa che appoggiava la nascente dittatura, allo Stato in via di fascistizzazione, al partito fascista che aveva ottenuto la maggioranza alle elezioni, e al comune sentire della sua comunità che, stanca delle lotte e dei conflitti degli anni precedenti, voleva addormentarsi nella "pacificazione" promessa da Mussolini e dimenticare i suoi morti: non è per caso che a sostenere la vedova di Gaiba, che di Argenta era stato amministratore, fosse rimasto solo il nostro don Minzoni. Ma un sacerdote può disobbedire? Ed oggi, in un paese che assiste quasi rassegnato alle violazioni della legge perpetrate in ogni ambito, dai "furbetti del quartierino" (cioè dai detentori del potere economico e finanziario) sino ai padroni del calcio; in un paese nel quale lo sport, dalle scommesse al doping passando per la corruzione, è stato usato per convincere gli italiani che il mondo è dei più furbi, cioè di chi la legge non la rispetta e delle leggi se ne fa di proprie, ad uso e consumo suo e dei suoi amici; in un paese come questo non sarà "diseducativo" l'esempio di un sacerdote che disobbediva? Si, se riduciamo la questione alla semplice coppia di termini: obbedienza/disobbedienza. Se invece ci chiediamo perché si obbedisce o disobbedisce alla legge o alla morale, le cose cambiano. Io posso obbedire alla legge perché la sento mia, cioè sento di essere parte di quel potere costituente che ha posto in essere (anche se io non ero nato) quei valori di cui la legge è espressione, e posso disobbedire in nome dello stesso principio costituente, ossia perché con la mia disobbedienza voglio creare nuovi, più ampi, più avanzati valori e diritti che sostituiscano quelli che sento essere inadeguati. In entrambi i casi io agisco moralmente, ed ho come punto di riferimento non il mio interesse, ma l'interesse generale. Al contrario, io posso obbedire per spirito servile, perché dò per scontato che ci debba essere un gendarme (anche inconscio: il Superio, il grillo parlante di Pinocchio, il capofamiglia, ecc.) che deve dirmi cosa debbo fare, perché credo di non essere capace di darmi delle regole, o più semplicemente perché è più facile obbedire che prendersi la responsabilità delle proprie azioni. Oppure posso disobbedire perché ho in vista il mio interesse personale, e non quello generale tutelato dalle leggi (o dallo spirito delle leggi). In questi ultimi due casi assistiamo all'azione di menti tristi, chiuse verso se stessi o verso gli altri. Due facili esempi, che vengono dal mondo della scuola. Il primo: l'insegnante che avversa i propositi di riforma della scuola (è successo nelle ultime due legislature, e questo dovrebbe dar da pensare al nuovo ministro) in nome di principi pedagogici che ritiene migliori di quelli proposti è forse sullo stesso piano dell'insegnante che non vuole cambiare - né in una direzione né in un'altra - perché vuol continuare a fare sempre la stessa lezione nello stesso modo sullo stesso libro con le stesse parole, come in una tristissima canzone di Venditti? Il secondo esempio: quando, dalle scuole e dai pubblici edifici, sventolavano le bandiere della pace, forse si violava, esponendo un simbolo "di parte", se non la legge, almeno qualche norma amministrativa o qualche regolamento. Ma chi disobbediva lo faceva in nome di un valore che sentiva essere (come i fatti hanno dimostrato) patrimonio condiviso della maggioranza degli italiani (e non solo), e come tale riteneva che anche i pubblici edifici, nei quali si concretizza il bene comune (o così si spera che avvenga) dovessero esternare questo sentire nel gioioso sventolìo di una bandiera multicolore. Per contro, chi rimuoveva queste bandiere non sosteneva forse una concezione dell'autorità come obbligo acritico di ottemperanza al dettato della legge? Non somigliavano forse al cupo gendarme Javert o alla incarognita signorina Rottenmeier? Non diffondevano una pedagogia della tristezza, nella quale la vita si annoia, ignorando il monito del filosofo Raoul Vaneigem, che afferma che una scuola nella quale la vita si annoia non insegna che la barbarie. La disobbedienza di don Minzoni era gioiosa e costituente, e nel suo disobbedire incarnava la verità evangelica che vuole il sabato per l'uomo, e non l'uomo per il sabato: «la religione non ammette servilismi, ma il martirio», scriveva alla vigilia del suo assassinio. Il parroco di Argenta si colloca oggi, non solo idealmente, accanto ad altri disobbedienti - religiosi e laici - che vivono la propria vita nella consapevolezza che ci sono giorni in cui l'obbedienza è servitù, e la disobbedienza è dignità, a dispetto del tempo trascorso e di tanti esempi di obbedienza che passano senza essere mai stati qualcosa.