Precisione
21-06-2006 / A parer mio
di Girolamo De Michele
Nell'ultimo anno di vita Italo Calvino descrisse una nuova malattia che stava prendendo il posto di vecchie, dimenticate epidemie, affiancandosi a nuove patologia (come l'AIDS): un'epidemia pestilenziale che colpisce l'uomo nel l'uso della parola, la facoltà che lo distingue dagli altri animali. Una peste che si manifesta nell'approssimazione, nella sbadataggine con la quale buttiamo là una parola piuttosto che un'altra ("là" dove? quanti fanno attenzione tra un "qua" e un "là"? perché I Promessi Sposi comincia con Quel ramo del lago di Como, e non con Questo ramo, o Un ramo?); nel ricorso a formule generiche, usate per sentito dire o per convenzione; nella disattenzione per la creazione di nuove parole che esprimano nuove circostanze, o nuove percezioni. Questa malattia (non "quella": questa) colpisce anche le immagini: quel flusso continuo di immagini nel quale siamo immersi, e nel quale non distinguiamo quasi più una trasmissione da un'altra, un film da un video-clip (come le case di Muccino: tutte uguali, che ospitino una famiglia medio-borghese in crisi o una famigliola di idioti felici davanti a una cesta di biscotti di marca), una velina da una letterina. «Non mi interessa, confessava Calvino, chiedermi se le origini di quest'epidemia siano da ricercare nella politica, nell'ideologia, nell'uniformità burocratica, nell'omogeneizzazione dei mass-media, nella diffusione scolastica della media cultura»: come un medico, Calvino tentava una diagnosi che servisse ad indicare la cura.
Dopo vent'anni la peste del linguaggio si è affermata. Uno dei segni della sua vittoria è nel fatto che quasi nessuno la vede: siamo talmente dentro questa peste da non riconoscerla come tale. È per questo che, leggendo Calvino, viene quasi spontaneo dire quella peste, e non questa: come se si trattasse di un fenomeno del passato, annidato tra i lunghi peli del topo nero medievale che è scomparso dalla storia, assieme ai suoi pidocchi infetti, e che un cristianissimo duca di Mantova avrebbe voluto diffondere tra i mussulmani per far combattere loro una crociata batteriologica.
Prendiamo un'immagine come Il cenacolo di Leonardo: ormai siamo tutti impegnati a cercare la famosa "M" di Maddalena (o di Maria?), a sanzionare in modo inequivocabile le fattezze femminee (Maddalena o Maria?) dello pseudo-apostolo alla destra di Gesù. È inutile precisare che non c'è alcuna M (è un effetto della distribuzione dei personaggi in quatro gruppi inseriti in strutture triangolari a creare l'effetto), che i volti esprimono passioni inconsce (Leonardo è uno degli inventori dell'inconscio), e dunque non c'è una donna, ma una abbandono alla disperazione in quelle fattezze: la paccottiglia di Dan Brown ha vinto. Del resto, Dan Brown è ben poca cosa, quanto a paccottiglia, rispetto all'imperatrice madre Elena, madre di Costantino e santificata, che di ritorno da Gerusalemme portò un impressionante repertorio di reliquie rinvenute sul Golgota, tra cui tre pezzi della Croce (sopravvissuti per tre secoli alle intemperie: prova certa del loro carattere miracoloso), uno dei chiodi che suppliziarono Gesù, una spina della corona miracolosamente individuata tra i secolari rovi del monte), e alcune zolle ancora impregnate del sangue divino! Quelle reliquie erano inverificabili (un po' come le stimmate di padre Pio, che dai santini non emanano quell'odore di acido fenico che sentì il messo inviato dal papa a verificare l'affidabilità delle voci che circondavano il "santo" di Pietralcina), ma servivano a Costantino per rafforzare la trasformazione del messaggio cristiano in uno strumento di potere: l'inverificabilità, l'inesattezza, l'imprecisione richiedono l'autorità costituita ad interprete inconfutabile. Oggi Dan Brown gli rende la pariglia, producendo lo stesso effetto: ci fidiamo dell'"autorevole scrittore", e siamo portati a fidarci di chi ci sembra saperne di più, invece di interpretare Leonardo (e magari anche i Vangeli, compresi quelli censurati da Costantino e dai vescovi di Nicea) col libero uso del nostro intelletto.
Esaminiamo ora una parola tra le più ricorrenti nell'ultima settimana di campagna elettorale nei discorsi di Silvio Berlusconi: "termovalorizzatore". I termovalorizzatori sono, con un linguaggio più preciso, gli inceneritori di rifiuti: ma chiamarli così ha il vantaggio di far credere che valorizzino i rifiuti producendo energia. E infatti Berlusconi era convinto di poter produrre energia dai rifiuti, e scalare il valore di questa energia dalla Tassa sui Rifiuti Solidi Urbani (ma allora non sarebbe meglio chiamarla Tassa sull'Energia Potenziale?). Si può abolire anche la tassa sui rifiuti, sostiene Berlusconi ma solo «quando, avendo costruito i termovalorizzatori, il risultato della trasformazione dei rifiuti in energia potrà essere addirittura in utile rispetto al costo della raccolta» (cito dal Giornale, che dovrebbe essere attendibile, cioè preciso, essendo di proprietà di suo fratello, oltretutto possessore di discariche, dunque doppiamente esperto in materia). Nel '700 si pensava che la combustione funzionasse così: combustibile=ceneri+flogisto. E cos'è il flogisto? Una sostanza che nessuno aveva mai visto, ma che a lume di naso doveva pur esistere; il suo nome deriva da un termine greco che significa "fiamma", e a una mente poco avvezza alla chimica può far pensare a una forma di energia: se brucio i rifiuti e ottengo un po' di cenere, più energia ho "valorizzato" gli scarti urbani. Per di più le ceneri sono pulite, perché non contengono polveri sottili, cioè quelle nefaste PM10 che ogni tanto ci costringono a lasciare la macchina a casa. È talmente banale che non si spiega perché ci siano forze politiche che si oppongono alla riduzione della Tassa sui Rifiuti: da cui l'unica spiegazione possibile, e cioè che i "comunisti" esistono per tassare il popolo! Vivessimo nel Settecento, funzionerebbe a meraviglia (tranne che per il fatto che i "comunisti" ancora non c'erano: però c'erano i giacobini, e soprattutto gli Illuministi). Poi è arrivato un brav'uomo (anzi, alla francese: un proud'homme), Lavoisier, che ci ha spiegato che il flogisto non esiste, e la combustione funziona così: combustibile+comburente=prodotti+calore. In parole povere: brucio rifiuti assieme a bicarbonato ed acqua, ed ottengo calore (meno di quanto ne ho bruciato, purtroppo), polveri (tante quanto erano i rifiuti), calce e acqua. Calce e acqua sono inquinate, quindi dovrò spendere altri soldi per smaltirli; e le polveri non sono inquinanti solo perché sono più piccole delle cosiddette polveri sottili, e non esiste una legge che impone di misurarle: ma sono dannose ben più di quelle che chiamiamo sottili - e che Calvino chiamerebbe in altro modo: sono certo più sottili di una pesca o di una palla da baseball, ma ben più grosse di polveri ancor più piccole, come quelle che sono state trovate nei biscotti della famiglia ebete degli spot di Muccino. Ma se questo discorso avessi provato a farlo in campagna elettorale, magari in televisione, dopo due minuti mi avrebbero accusato di essere una sanguisuga del popolo. Perché tra Otello, che cerca di parlare con esattezza (Otello è un moro, e ha dovuto imparare la lingua della Repubblica di Venezia: ecco perché parla così bene) e Jago, che è un mentitore nato, oggi in televisione vince sempre Jago. A meno che Otello non cominci a parlare come lui, e allora a farne le spese è la povera Desdemona.
Potrei fare un terzo esempio, ma lo lascio alla fantasia del lettore: pensate a come il linguaggio dei talk-show calcistici, l'infrazione sistematica di ogni regola in corso d'opera, la finta polemica tra giornalisti sportivi del nord e del sud ha creato l'abitudine all'uso impreciso del linguaggio e la disabitudine al rispetto delle regole. Quando si dice che "o tutti sono colpevoli, o non lo è nessuno", di cosa si sta parlando? Di calcio? Di tangenti? Del debito pubblico? Della guerra tra partigiani e nazi-fascisti? Dell'impanatura sbagliata da Antonella Clerici? Degli autori impuniti della Strage di Piazza Fontana?
Diversamente da Calvino, io credo che questa peste abbia una ragione politica precisa: credo che, come in un bel romanzo di Stephen King, un apprendista stregone abbia volontariamente rotto una fialetta contenente i bacilli infetti. Ma questo è meno importante delle conseguenze. Se continuiamo ad abitare un linguaggio impreciso, gommoso, viscido, non abbiamo alcuna possibilità di verificare se le regole che noi stessi stabiliamo (o che accettiamo come condivise) sono rispettate. Viene meno la possibilità stessa della trasparenza, cioè il pre-requisito della democrazia: dietro il velo fumoso e opaco del linguaggio impreciso tutte le vacche sono grigie, e sopratutto le mani di tutti i ladri sono immacolate. Un filosofo americano, Harry G. Frankfurt, ha scritto un piccolo trattato sulle "stronzate", cioè su quelle affermazioni che non sono né vere né false: semplicemente, chi dice stronzate non ha alcun interesse alla verità, né è tenuto a sapere di cosa sta parlando (mentre il mentitore deve sapere di cosa sta parlando, non fosse altro che per poter mentire). Ecco dove volevo arrivare: in un mondo di stronzate non ha senso cercare di usare il nostro intelletto per discriminare il vero dal falso. Nel mondo delle stronzate viene spontaneo "fidarsi", accettare un'affermazione piuttosto che un'altra "perché lo ha detto il signor X" (al Maurizio Costanzo Show? A Porta a Porta? A un convegno di premi Nobel? Non fa differenza). Ma il linguaggio è ciò che ci distingue dagli altri animali: se il nostro linguaggio finisce con l'assomigliare a un gorgoglio di parole vacue, cosa ne è della nostra umanità? Non sarà che, per effetto di questa peste, stiamo vivendo un mutamento antropologico, un'inversione dell'evoluzione - cioè, come cantavano i Devo (Are We not Men, We are Devo), una devoluzione?