Asfissiante cultura
02-01-2007 / A parer mio
di Giuliana Berengan
"Asfissiante cultura": una definizione di Jean Dubuffet che risale al 1969 e che vorrei riproporre mentre mi accingo a sostenere che la cultura, privata della propria carica sovversiva, diviene autoritaria, nociva, discriminatoria, oserei dire persino immorale. Nel momento in cui le singole teste pensanti si trasformano in azionisti della grande impresa che produce modelli e regole di appartenenza al corpo sociale viene meno il desiderio di creare diversità, si cerca piuttosto l'adesione al gruppo, alla comunità che si fa garante di se stessa e delle proprie certezze. La cultura diviene allora strumento per esercitare il controllo, anzi per plasmare punti di vista sicuri ed omogenei sul bello, sull'utile, sull'arte, sulla letteratura. Diventa regola, e così il pensiero che vive solo nell'incessante movimento, rinnega la propria natura, si fa stanziale, soggiorna intorpidito e quasi intossicato dalla prolungata mancanza di emozioni forti, di scarto dalla norma, di devianza dall'ordine costituito. Il gioco rischioso ed inebriante dell'utopia si perde in una fittizia contrapposizione alle proposte costruttive, ai progetti utili, ai punti di vista condivisibili dalla maggioranza. Ciò che ha valore è il prodotto che può essere esposto senza danno nel grande emporio della cultura e si dimentica la valenza del processo che porta alla creazione, quello che, come linfa vitale, attraversa, nascosto e segreto, l'artista, il libero pensatore; quello che trasforma intimamente, consolida l'autonomia e la consapevolezza, che non cerca approvazione né è finalizzato all'apparire. La cultura, per diritto etimologico, è "coltivazione" data la sua matrice nel verbo latino colere "coltivare": è quindi incessante processo di morte e rinascita. Eppure quella che si presenta al terzo millennio è una cultura privata della sua carica vitale, trasformata in un omologante codice fatto di parole giustapposte in buon ordine, di nozioni il più possibile accettabili e comprensibili a molti; la cultura non sa più creare perché non ha più il coraggio di distruggere. Dunque pare proprio che anche questa parola si stia allontanando dalla natura che la contraddistingue per diventare vetrina delle vanità dove politici, personaggi televisivi, funzionari d'apparato, industriali e chissà chi altro si mettono in mostra come letterati, scrittori, divulgatori di eleganti banalità. Gli intellettuali sempre più complici del regime sociale, influenzati dai miti sui quali esso si regge, sono ormai più simili ad impiegati, a mercanti, a speculatori, a commessi viaggiatori che producono ed espongono ciò che il mercato chiede. Cultura e sistema sociale sono talmente intrecciati, dipendenti, intercambiabili che non è più immaginabile alcuna spinta dell'una per indurre cambiamento nell'altro. Non è forse vero che oggi esiste una chiesa della cultura? Se la risposta è sì bisognerà che il pensiero "fuori dal comune" ritrovi la forza di combattere contro la trasformazione della cultura in un talk show. E questa volta è ben più di una parola che dobbiamo salvare!