La parola del cuore
25-01-2007 / A parer mio
di Giuliana Berengan
"Due monaci camminano lungo la riva di un torrente. Dalla sponda opposta una donna grida, chiede aiuto: non riesce ad attraversare. Uno dei due monaci entra nell'acqua, raggiunge la donna, se la carica sulle spalle e la porta a destinazione. Il monaco che era rimasto a guardare lo redarguisce: tu hai peccato, non dovevi avvicinarti a una donna! E l'altro risponde: io ho lasciato quella donna sulla riva tu stai ancora portandotela addosso". E' una delle storielle dello ZEN che preferisco per la sua immensa capacità di mostrare che cosa significhi essere puri di cuore, e quindi liberi di esprimere la propria interiorità con generosa pienezza. Ho conosciuto questa purezza di cuore, ho avuto il dono di incontrarla nell'unico prete che potesse permettersi in un pubblico consesso di salutare un'amica con l'espressione "ciao tesoro". Ed erano parole che emanavano una sincerità di affetto, di umana vicinanza che, sempre, a me donna di poca fede ma di inguaribile sentimento, facevano sperare che il linguaggio del cuore potesse davvero riuscire, esso solo, a districarci dalle pastoie confessionali. Quel prete riusciva a sorprendermi per la sua capacità di non coincidere con alcun cliché dell'uomo di Dio pur conservando la lucida e sempre presente certezza di religiosità che non permetteva all'interlocutore di dimenticare o di prendere con leggerezza le ragioni del suo ministero. Una volta, dopo aver ascoltato alcune sue argute osservazioni, inusuali e dense di preziosi rimandi non potei trattenermi dal dirgli: "Peccato che tu sia un prete, intelligenza e talento sprecati!" E lui, senza pensarci un attimo, mi rispose: "No, per fortuna! I preti intelligenti sembrano più intelligenti degli altri" E in quelle parole c'erano la sua ironia, la nitidezza del suo fervido pensiero e la consapevolezza del suo essere portatore di poesia e d'arte ma anche tramite di sacralità. Un prete che non si sottraeva mai al mondo e un uomo che non si sottraeva mai al suo essere prete. Sono immagini e pensieri che la memoria mi restituisce unitamente al dolore per la perdita di un intellettuale raffinato, di uno spirito lieve, di un artista dalla forte tempra espressiva, di un amico capace di non giudicarti. E poiché con don Franco Patruno, perché è di lui che sto parlando, condividevo l'amore per la parola, è ad una parola che voglio legare il suo ricordo, una parola di cui si va perdendo la preziosa valenza originaria: è l'innocenza come qualità dello spirito, come attitudine e abitudine a non nuocere che io sento fortemente connaturata alla sua figura di fanciullo antico, pronto a stupirsi di fronte al miracolo della poesia. Innocenza nel significato primo dei termini latini che la compongono: in (non) e il verbo nocere (nuocere); innocenza che ha in sé l'ingenuità che porta alla condivisione, la semplicità che sa accettare il mistero della vita, del dolore, della morte e la purezza del cuore che conduce all'empatia, al sentire insieme oltre ogni differenza. Nella Bhagavadgita Krishna dice dell'anima: "L'acqua non può bagnarla né il vento asciugarla, il fuoco non può bruciarla né le armi possono distruggerla perché essa è antica, non è mai nata e non muore mai". Non è certo mio compito immaginare vite che continuano e incontri in altri mondi ma mi fa piacere pensare che davvero "una vita esprima solo una minuscola frazione della ricchezza che la nostra anima tiene nello scrigno dell'infinità"e allora don Franco ha ancora infiniti mondi da dipingere.