Il simbolo di Ulisse
12-09-2007 / A parer mio
di Giuliana Berengan
L'eroe giunge solo alla meta e, nel caso di Odisseo, con i compagni decimati durante il viaggio periglioso verso Itaca, con lo sconvolgimento di ogni certezza del ritorno e il profilarsi del dubbio persino sull'affidabilità del ruolo divino, la solitudine diviene ormai simbolo della condizione di ogni creatura che osi sfidare la vita e le regole che la costringono e la determinano.
Il simbolo era per i Greci una sorta di contromarca che serviva ad identificarsi: due parti corrispondenti di un oggetto venivano conservate da due diverse persone le quali, ravvicinandole, avevano un segno di riconoscimento certo. E nella nostra parola rimane il riferimento a quella originaria funzione: gli individui che riconoscono il valore di un'immagine, di un'espressione, di un'opera aldilà della semplice apparenza appartengono allo stesso gruppo e le corde della loro anima iniziano a vibrare all'unisono. Come se individui separati ritrovassero la propria completezza nel rintracciare il pezzo mancante della propria tessera. E tra chi possiede questo codice si crea allora una sorta di complicità che genera empatia, che provoca emozioni condivise, che induce conoscenza facendo convergere gli infiniti rivoli di un unico grande sapere.
E' il nostro pezzo mancante di Ulisse che Luca Ronconi ha gettato sulla scena del teatro Comunale di Ferrara lasciando a ciascuno la possibilità di far combaciare la propria parte, spesso dimenticata, difficile da ritrovare, per potersi così identificare e, nella ritrovata consapevolezza di radici comuni, di comune destino, cogliere i segni disseminati sul cammino che porta alla comprensione e forse all'accettazione della nostra umanità. Certo hanno smarrito irrimediabilmente la propria tessera odissiaca quanti hanno rinsecchito una sfida dal respiro ampio, multiforme come l'ingegno dell'eroe omerico, riducendola ad un battibecco fra questuanti di denaro pubblico. Del resto gli antichi ben sapevano che il linguaggio dei simboli, come quello dell'allegoria e dell'enigma, avendo lo scopo di stimolare l'intelligenza, commisurava la propria efficacia alla capacità di comprensione del fruitore. E quella del "Doppio ritorno" è stata una proposta quanto mai democratica, che ha dato a tutti la possibilità di esercitare la propria capacità di intendere, di interpretare, di accedere al racconto mitico, al mistero della poesia: ciascuno ha avuto l'opportunità di compiere il proprio percorso eminentemente individuale. Proprio per questo i livelli di comprensione sono stati differenziati, ammettendo che tutti coloro che hanno sputato sentenze siano stati almeno spettatori. Personalmente condivido il pensiero platonico secondo cui i racconti di alta caratura devono essere ascoltati in mistico silenzio dal più ristretto numero di persone possibile, ben consapevole dell'inattualità di tale punto di vista. Eppure riconosco il coraggio di far incontrare ed interagire due testi tanto dissimili: l'uno impregnato di politicità contraddittoria, rischiosa, aggressiva, grondante sangue, attraversata dalle urla e dalla brutalità del potere; l'altro, e parlo de "L'antro delle Ninfe" di Porfirio, che si addentra nella filosofia misterica, che propone un percorso iniziatico, che allude al sonno ed al risveglio dell'anima, al suo passaggio attraverso il cosmo rappresentato dall'antro per riapprodare alla sua vera patria, quella divina.
Non mi importa esprimere opinioni sulla riuscita o meno dell'ardua impresa e non amo dare giudizi sul lavoro altrui. Voglio invece rimandare alla bella introduzione che accompagna l'edizione Adelphi del testo di Porfirio dove si dice, tra l'altro, che per arrivare alla "visione" bisogna affrontare il percorso del labirinto.