La sindrome della vacca sacra
03-01-2007 / A parer mio
di Andrea Poli
Se non fossero affetti dalla sindrome della vacca sacra, i ciclisti ferraresi sarebbero anche dei benemeriti dell'umanità, stante il fatto che deambulano sull'unico mezzo di locomozione fornito di ruote -la biga, appunto- che non inquina sul serio. Le biciclette, difatti, sono grasso che cola per l'ambiente e la salute collettiva: sono silenziose, non emettono scarichi nocivi (a patto che abbiate l'accortezza di tenervi a distanza di sicurezza dalle ascelle dei conduttori), non hanno bisogno di quegli inquietanti parcheggi sotterranei multistrato che si avvitano nel sottosuolo come gironi danteschi; ai biciclari estensi è sufficiente un albero, un palo di semaforo, un muro con la targhetta "E' severamente vietato appoggiare cicli" per tirar su dal nulla vere e proprie favelas di bici con centinaia di velocipedi ammassati l'uno sull'altro in un groviglio inestricabile e pittoresco. Per la gioia dei turisti, sempre a caccia di tipicità locali, e dei rottamai, sempre a caccia di ferrivecchi. Insomma, i pedalatori indigeni hanno creato una situazione talmente peculiare da diventare un richiamo turistico addirittura sui cartelli stradali: Ferrara città delle biciclette. Dev'essere per questa loro funzione sociale universalmente riconosciuta che hanno sviluppato la sindrome da vacca sacra. Quelle indiane, sapete, che fanno i comodi loro lungo le strade obbligando le macchine a numeri di alta acrobazia per scansarle. Ecco, i nostri bigaroli sono uguali alle vacche indiane, precisi identici a partire dall'ascendenza, non so se ci siamo capiti: io faccio quel che mi pare, quelli in macchina stiano attenti loro. Presupposto vagamente dogmatico che non tiene in sufficiente conto le differenze culturali esistenti far gli automobilisti indiani e ferraresi; onde per cui, se per quelli asiatici le vacche che si piazzano a ruminare sulla tangenziale di Bombay rappresentano gli spiriti degli antenati, per i loro omologhi emiliani i ciclisti che scorrazzano a ridosso della striscia di mezzeria di viale Cavour rappresentano degli squinternati che meritano solo di essere sollecitamente aiutati a ricongiungersi agli antenati di cui trattasi. La discutibile filosofia dei dueruotisti raggiunge il suo apice nelle rotatorie, che qualsiasi ciclista provvisto di volume cerebrale superiore a quello di un protozoo affronta nel rispetto di due principi basilari. Primo, dare sempre la precedenza a chi viene da sinistra come vuole il codice; secondo, stare sempre all'esterno dell'anello come vuole il buon senso, dal momento che tagliare la rotonda per guadagnare metri a volte accorcia la strada e più spesso accorcia la vita visto e considerato che, parafrasando Sergio Leone, quando un uomo con l'auto si scontra con un uomo con la bici l'uomo con la bici è un uomo morto. E infatti proprio l'altra mattina, alla rotonda tra via Bologna e viale Volano, un distinto signore sulla cinquantina mi sbuca a destra in mountain bike pedalando forsennatamente su un rapporto da cima Coppi: cinquecento pedalate a metro. Che va benissimo per scavallare un passo alpino, ci mancherebbe, ma è un tantino inadeguato per sperare di veder sfuggire alle grinfie dei centotrenta cavalli del mio turbo il loro meno nobile cugino biciclettaro. Incurante del pericolo, l'equide guadagna centimetro dopo centimetro il centro della rotatoria tagliandomi la strada verso sinistra e costringendomi a frenare bruscamente per non asfaltarlo e poi, mentre mi appresto a formulargli in maniera non convenzionale i più fervidi auguri per il nuovo anno, mi ritaglia la strada verso destra per immettersi su via Bologna in uscita dalla città. Lo confesso pubblicamente, solo un rigurgito di carità cristiana mi ha trattenuto dal giustiziare lui e la sua mountain bike seduta stante: la biga era innocente. Ma ora sono tormentato dai rimorsi: quando capita l'occasione, un persecutore di poveri automobilisti non va mai lasciato a piede libero.