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Vincenzo duracell Turri

15-11-2007 / A parer mio

di Andrea Poli

Cade proprio in questi giorni il ventesimo anniversario della più eccentrica compagnia di teatro dialettale della provincia: il Gruppo Artistico Lagotto. Da Lagosanto, quartier generale della banda di squinternati che ruotano come asteroidi attorno a quel geniaccio del loro capocomico, l'amico Vincenzo Turri. Capo carismatico e inesauribile che è la trasposizione umana della pubblicità delle duracell: tutti gli altri capicomici si fermano, solo Vincenzo Turri dura fino a tre volte di più. E difatti in questi vent'anni ha fatto praticamente tutto lui, come i veneti delle barzellette: ha sfornato decine di commedie, ha composto decine di canzoni, ha allestito centinaia di spettacoli e già che c'era ha messo pure su qualche decina di chili; passando per una puntigliosa catalogazione, anche filmata, delle erbe del comprensorio laghese, la riscoperta di quelle che anticamente venivano usate in cucina e in erboristeria, la sceneggiatura di un cortometraggio e varie iniziative per le scuole, i bambini, le fiere e sagre del territorio e chi più ne ha più ne metta. Tutto ha fatto, tranne il suo mestiere, da lui con longanimità delegato alla bella e paziente moglie Elsa: l'agricoltore. Anzi l'assegnatario, come tiene a precisare con una punta di civetteria, e qui do un consiglio spassionato al lettore cui fosse venuto l'uzzo di chiedere direttamente a Vincenzo la differenza intercorrente fra un banale agricoltore e l'assegnatario: non fatelo. Perché ha una conoscenza sterminata della storia e della cultura del territorio laghese, dalla formazione del brodo primordiale a tre minuti fa, e coi lucciconi agli occhi vi intratterrebbe dottamente per alcuni giorni senza interruzione sul fatto che Lagosanto, come rivela chiaramente il toponimo, era fino a pochi anni fa una valle chiusa, in cui i laghesi pescavano beatamente anguille e pesce vario, poi i terreni sono stati asciugati e assegnati in lotti alla popolazione, da cui il termine assegnatari. E dalla storia della sua terra antica, impregnata degli umori delle acque e di quelli delle sue genti, trae inesauribile ispirazione per le sue commedie, che trasudano di cultura vera sì, ma anche di popolane scollacciate e rapporti golosamente consumati dietro un argine; perché, come dice giustamente lui, anche gli istinti sessuali incomprimibili e il parlare grasso fanno parte integrante del carattere della nostra popolazione, e dunque sono cultura. Come in Angeli nella nebbia, una delle sue opere più celebri, che contiene tutto questo e la scena strepitosa di un processo (effettivamente celebrato) ad alcuni fiocinini laghesi sorpresi a pescare in valle, nella quale si alternano con effetto umoristico irresistibile giudici rintronati, avvocati difensori gaglioffi, pubblici ministeri tontoloni e imputati etilisti, tutti rigorosamente provenienti da altre compagnie di teatro dialettale per rendergli omaggio, i quali -nel corso di prove ormai avvolte di un'aura di leggenda - pare gli abbiano scolato una damigiana intera di vino, giusto così per carburarsi. Piantandogli financo uno sciopero senza preavviso la sera in cui, finita la damigiana, il buon Vincenzo gli portò una dama da cinque litri che loro concordemente giudicarono non all'altezza. A precisa domanda del vostro corsivista sul tempo impiegato a scrivere il copione, la risposta fu lapidaria: "Aaah…agh o miss trì giòran". Dai dai, Vincenzo, non è mica possibile che tu ci abbia messo tre giorni per buttar giù tre atti da cinquanta minuti; guarda che sono due ore e mezzo di spettacolo, eh. Lui mi guarda come un gatto che si prepara a papparsi un grosso topo, e mi risponde sornione: "At gh'a rason, càncar, an l'o mina fata in trì dì. Agh o miss trì dopmesdì.". Il bello è che ci ha davvero messo tre pomeriggi, cal càncar là. Cento di questi anniversari, Vincenzo.