Comune di Ferrara

domenica, 04 maggio 2025.

Dove sei: Homepage > Lista notizie > Solidarietà

Solidarietà

05-04-2007 / A parer mio

di Girolamo De Michele

Mi è capitato, pochi giorni or sono, di presenziare a un funerale: un gesto non usuale, che ho vissuto col disagio di chi, non credente (in verità non cristiano) assieme ad altri partecipanti, condivide un'esperienza con altri credenti. Diciamo che ad accomunarci non era la fede, ma un dolore umano. Di questo si è fatto interprete il prete che officiava: un uomo, mi è sembrato, semplice, sin troppo umano. Di parole comuni, a volte impacciate: insomma, un uomo come tanti in mezzo ai tanti, in difficoltà in una chiesa che non riusciva a contenere i partecipanti, quasi tutti giovani. Giovani venuti con le felpe e i giubbotti di tutti i giorni: io che mi ero scapicollato per cambiarmi la cravatta, notavo che non c'erano quasi cravatte. C'erano orecchini, dreadlook, rasature più da sabato sera che da messa solenne: fossi un moralista di quelli che non ci sono più i valori di una volta, c'era di che fare una concione sui "giovani d'oggi" che non sanno neanche come ci si veste per un funerale. Per fortuna moralista non sono, o almeno spero di non esserlo. Ho osservato, ascoltato, pensato. Sul momento non capivo perché l'omelia mi piacesse, ma certo era che mi aveva avvinto: dev'essere un brav'uomo questo prete, ho pensato. L'ho capito qualche giorno dopo, leggendo alcuni scritti di due pensatori - il costituzionalista Zagrebelsky e la filosofa De Monticelli - che ultimamente sono un mio personale punto di riferimento, cosa di quel semplice parroco di paese mi era entrato nell'orecchio per non più uscirne. Non starò qui a riassumere quello che, negli ultimi tempi, i due pensatori che citavo hanno scritto (ma spero che qualche lettore di CronacaComune sia stimolato a cercarne i libri e gli articoli): il tema che in questi giorni li accomuna è la ricerca di un terreno d'intesa tra credenti e non credenti in nome di una ragionevole difesa della laicità dello Stato. In luogo dei contrapposti "non possumus", quali "possumus" possiamo reciprocamente pensare e praticare? A me sembra di averne trovati due in comune tra il mio sentire e quello del semplice prete che citavo. Il primo è un tema drammaticamente enunciato dallo stesso papa Woytila: il silenzio di Dio. Citava, il prete, la resurrezione di Lazzaro. E ricordava commosso, come attorno al letto d'ospedale del ragazzo che spirava invano i suoi amici e i suoi cari avessero, forse inconsapevolmente, rivolto al morente la stessa invocazione di Cristo: alzati e cammina. Non c'è stata risposta. Per il non credente la risposta non può esserci, perché nessuna voce, nessun cielo sovrastano la nostra coscienza. Per il credente c'è un cielo e c'è un dio: che però tace. Ecco cosa ci accomuna: che il dio resti nascosto nel suo silenzio o non esista, per noi che calpestiamo il suolo terreno l'esito è lo stesso. Il senso della vita non ci viene chiarito dall'alto, i valori non discendono dal cielo scritti in tavole di pietra: non restano che le nostre coscienze, i nostri cuori, le nostre intelligenze, per dare senso e valore al nostro esistere. E una volta che lo abbiamo concordemente rintracciato, chi può sapere se è stato creato ex novo o scoperto là dove qualcuno lo aveva nascosto?
Ma se, da un punto di vista pratico, non si ode la voce di un'autorità trascendente che ci guidi, come orientarci nel mondo? E chi dice che solo un'autorità trascendente possa operare il miracolo di un'attribuzione di senso al mondo? Più di qualcuno, purtroppo. Ciò che accomuna questi venditori di apocalissi è lo svilimento della ragione, il disprezzo verso le potenzialità dell'umano, verso ciò che può un corpo, direbbe Spinoza - l'antiumanesimo che degrada la persona umana, direbbe Maritain, il maestro filosofico di papa Montini (ma oggi, purtroppo, ben altri, e di ben altra levatura intellettuale sembrano essere gli interlocutori del pontefice: non Maritain, ma Marcello Pera; non La Pira, ma Paola Binetti...)
Qui, di nuovo, mi tornano in mente le parole del parroco che, guardandosi intorno, ha pronunciato una parola importante, laica ed evangelica al tempo stesso: solidarietà. La solidarietà tra i convenuti, ha detto, è il dono più grande che Daniele, il ragazzo che salutavamo, ci ha lasciato. Non lo ha detto dall'alto di un pulpito, ma ponendosi allo stesso livello dei presenti: senza gerarchia, senza superiorità, senza superbia. Una solidarietà che non nasce dall'essere sottomessi a un'autorità che pretende di pensare in noi e per noi, ma dallo scoprirsi dotati di eguale dignità e di eguali ragioni. Al silenzio che viene dall'alto corrispondono le mani che si stringono qui, in basso. Se su questo siamo d'accordo, il messaggio di uguaglianza fra soggetti dotati di diritti inalienabili scritto nella Costituzione coincide con la fratellanza che proviene dal Vangelo. Sulla solidarietà possono essere costruite molteplici forme di rapporti, relazioni, aggregazioni tra esseri umani: unioni sociali, politiche, amichevoli, affettive, progetti, piccole società che, inserendosi nello spazio tra il singolo e lo Stato, evitano il duplice pericolo dell'atomismo egoistico e dello Stato come totalità.
Questo, e non altro, era l'intento dei nostri Costituenti, e su questo non ci fu iato tra credenti e non credenti. Oggi invece assistiamo al triste scenario di chi pretende di giudicare e imporre uno stile di vita sulla base del proprio stile, magari ignorando l'ipocrita trave nel proprio occhio nel mentre blatera di pagliuzze altrui; di chi si arroga il diritto di limitare o ridurre, invece che ampliare, le forme in cui la solidarietà si manifesta, di chi considera i diritti una merce di scambio: come se i diritti fossero oggetti che, per essere attribuiti a qualcuno, devono necessariamente essere tolti a qualcun altro, e non qualcosa che arricchisce l'altro, che ne ha bisogno, senza che io ne venga privato. Quanto sia, prima ancora che inumana, sciocca e irragionevole questa pretesa, basta il semplice discorso di un modesto parroco di paese a mostrarlo.