Quello che resta
23-02-2007 / A parer mio
di Chiara De Luca
Non so esattamente da dove derivi il mio amore per la poesia, l'urgenza che mi spinge a scriverla e leggerla. Credo che abbia le stesse radici di ciò che secondo me giustifica l'esistenza: la ricerca inesausta. Ricerca di qualcosa di bello, di vero. Non intendo solo la bellezza nel suo senso estetico, ma in un senso che definirei etico. Come diceva Gian Ruggero Manzoni, sarebbe troppo comodo intendere l'etica come qualcosa di fluttuante, variabile e frammentato. L'etica ha in sé un elemento di universalità, dunque assoluto. Etico è ciò che è fatto in osservanza di principi (parola abusata e fuori moda) che dovrebbero legarci l'uno all'altro nel rispetto e nell'amore inteso come slancio vitale che permea il reale, al di là dei suoi orrori, come principio costruttivo e creatore: di legami, di consonanze e dissonanze. I principi sono le leggi interiori che ci diamo in base alla fiera e stupita consapevolezza della nostra umanità, a prescindere da quanto è codificato e imposto dall'esterno. E il rispetto che informa tali principi consiste nella costante valutazione degli effetti che i nostri gesti e le nostre parole possono avere sull'altro, la cui esistenza è altrettanto miracolosa quanto la nostra. Nella consapevolezza che non esiste una verità universale, quello che cerco è l'unico brandello di verità che possiamo afferrare, e che è specchio dell'assoluto. Dove con assoluto non intendo una entità necessariamente connotata di valori metafisici o religiosi. Intendo tutto quanto è puro, alto e incondizionato tutto quanto non è finzione e artificio, e preme per andare oltre. L'assoluto lo cerco negli occhi di mia madre, nel suo amore, nella vicinanza di un amico, in ogni legame vero e raro che sia difficile spezzare. L'oggetto della mia ricerca, poetica e di vita, è dunque la bellezza. La bellezza di un gesto, di uno sguardo che comprende, ma anche quella insita nel cielo, che spesso ci si dimentica di guardare, nello scorrere dell'acqua, nel fatto stesso di esserci, e nella volontà di non esserci banalmente, ma di sentire. A rischio di apparire retorica, dico che ciò che soffro ogni giorno è la facilità. Facilità nel tradire un amico per un tornaconto minimo, facilità nel sostituire le persone in base a considerazioni del momento, facilità nel tradire un amore, un'idea, una fede, facilità nell'uso delle parole, cui si accorda un peso di giorno in giorno minore, e un valore sempre più accessorio e strumentale, facilità della rinuncia: al rischio, al coraggio, alla coerenza
facilità
L'assoluto è ciò che resta, è l'oggetto della ricerca inesausta, tormentosa, difficile. La poesia è strumento di questa ricerca, è occhio ferito che sta nel mondo e vede, spesso tra le lacrime, qualcosa di più, ciò che paradossalmente è marginalizzato. Non perché il poeta sia un veggente o una creatura superiore, ma perché si ferma, perché accetta di sopportare il silenzio, di scavarci dentro, di prendere su di sé il peso del poco di verità che ci è concesso afferrare. Perché prova a non avere paura, ad essere coerente con i fini della sua ricerca, con i principi, intesi come rischiosa apertura all'umano.
La poesia in sé non salva, ma si nutre di bellezza, verità, di assoluto, e questo ha qualcosa di salvifico e consolatorio. Anche se ciò implica anche il rovescio della medaglia. Perché la poesia germina nel silenzio, è qui che rivive il reale, in tutta la sua consistenza e pesantezza schiacciante. La poesia cresce nella solitudine, nel faccia a faccia con se stessi, quando tanto spesso nel quotidiano si cerca di non incontrare mai l'altra parte del Sé, quella oscura, sofferente, ricettiva come un radar. È da quella che nasce la poesia autentica, che è lavoro di scavo impietoso tra le pieghe dell'anima, per riconoscersi (o disconoscersi) nell'altro e nella realtà che vi si imprime a fuoco.
Ho sempre detto che la poesia è ciò che mi salva e mi tiene in vita. Così come respirare, mangiare, correre. È una urgenza, una necessità ineliminabile. Il che non implica che sia una panacea, o che possa salvare il mondo. Ci pensavo in questi giorni. La poesia non ti offre appiglio negli estremi: di gioia, di disperazione, di estasi, di sconforto, di follia. Nulla ti salva in quei momenti, se non il senso della ricerca e dell'attesa. La poesia è ciò che segue all'attesa, è quella ricerca, è ciò che viene dopo, quando è tornato il silenzio. È ciò che consente di tornare a quel dolore, a quella gioia, a quella follia, di estrarli da un punto dentro, averli davanti, per vederli, per comprendere. È ciò che consente di salvare un brandello di vero dall'assolutezza del sentire. E l'estrazione è dolorosa, ma è ciò che permette di superare, di interiorizzare l'evento dandogli voce, perché non resti solo marchio rovente o macchia indistinta nell'anima. È ciò che permette talvolta di dare voce ad un altro, ad altro, di fare propria quella voce, dunque accrescersi della propria esperienza e dell'esperienza dell'altro.
Per quanto possa essere sbagliato, la poesia è per me l'unico modo possibile per esprimermi davvero, uno stratagemma lungamente cercato per poter parlare. Io sono soltanto lì dentro. La poesia è per me il luogo della libertà assoluta, il luogo dell'incontro, che implica la possibilità di un doloroso mancato incontro, di uno scontro. Ed è un dono tremendo, sia per chi lo fa, che per chi lo riceve. Un dono che può essere accettato o rifiutato con conseguenze incontrollate.
Per questo la poesia non dovrebbe essere costruzione o calcolo, ma verità, quel poco che possiamo dire, e bellezza, nel senso di autenticità, sincerità, coraggio, anche. Così leggere poesia implica prima di tutto curiosità e rispetto. Ed è un'arma potentissima.