Fogna mediatica
18-02-2010 / A parer mio
di Giuseppe Fornaro
"Fogna mediatica" per definire il diritto-dovere di giornali e Tv di informare non si era
ancora sentito. Forse solo Berlusconi finora si era spinto a tanto nelle sue innumerevoli
esternazioni contro la stampa rea di divulgare notizie sacrosante sui processi pendenti e
le inchieste su di lui. Eppure queste parole sono state pronunciate da un magistrato, il
procuratore capo della Repubblica di Ferrara, Rosario Minna, a margine di un'udienza
preliminare per il processo Aldrovandi bis in cui è stata chiamata a testimoniare la pm
Mariamanuela Guerra titolare della prima fase delle indagini sulla morte di Federico.
Riferiscono le cronache che è piombato in aula all'insaputa di tutti (anche del sostituto
titolare dell'inchiesta, Nicola Proto) per contestare al gup Monica Bighetti la decisione di
convocare la Guerra per testimoniare della telefonata intercorsa tra lei e il dirigente delle
volanti Paolo Marino di cui si dovrà decidere il rinvio a giudizio o meno per omissioni
d'atti d'ufficio. Secondo l'accusa Marino indusse il pm a non recarsi sul posto attribuendo
le cause della morte del ragazzo ad un malore e tacendo, invece, sulla dura colluttazione
avuta da Federico con i quattro agenti condannati in primo grado. Per questo suo
comportamento il pm Guerra fu sottoposta a indagine dal Csm che non lo ritenne
censurabile. E a quelle carte e quella decisione dell'organo di autogoverno della
magistratura Minna pretendeva si facesse riferimento in questo procedimento bis non
ascoltando come testimone la Guerra. Una reazione veemente e inspiegabile da parte del
capo di una procura che non dovrebbe mai temere le aule di un tribunale.
In punta di diritto Minna potrebbe anche aver ragione nel ritenere che un magistrato
parla attraverso i propri atti e che non può essere chiamato a testimoniare. Ma l'uscita
del capo della procura, per i toni e i modi (anche nei confronti dell'attuale pm titolare
dell'inchiesta), ha fatto sì che martedì scorso si scrivesse un'altra brutta pagina in questa
già tragica vicenda per la morte di Federico. Ancora una volta sono stati offesi e feriti i
sentimenti dei genitori del ragazzo, ma anche quelli di una larga parte della città che si è
stretta intorno alla famiglia Aldrovandi in questi cinque anni. Il pm Minna ha tutti gli
strumenti giuridici del caso per aprire eventualmente un fascicolo sulla fuga di notizie su
un'udienza preliminare, se è questo ciò che contesta, ma non può definire "fogna
mediatica" il diritto-dovere di informazione senza il quale il caso Aldrovandi
probabilmente sarebbe già finito da un pezzo in archivio. Vale la pena ricordare a questo
proposito, quasi fosse una triste continuità, come il suo predecessore tentò di
sequestrare documenti dalle redazioni dei giornali e telegiornali di tutt'Italia che
cominciavano a parlare del caso di Federico fino a quel momento rimasto in un limbo
investigativo. Allora viene da chiedersi perché. Perché il diritto di una famiglia affinché si
faccia luce sulla morte del proprio figlio di 18 anni deve essere osteggiato in questo
modo?
Ciò di cui hanno parlato i giornali non è nulla di nuovo e che non sia già emerso nel corso
del processo principale di primo grado, dunque in una fase dibattimentale pubblica,
contro i quattro imputati che causarono la morte di Federico. E allora perché tanta
veemenza? Non c'è proporzione tra la reazione di Minna e i fatti riportati dalla stampa,
fatti, ribadisco, ampiamente noti all'opinione pubblica. E allora qual è il vero obiettivo? La
difesa del diritto si fa in primo luogo accertando fino in fondo le cause che portarono al
decesso di un ragazzo di 18 anni, solo, indifeso, disarmato, incensurato e che non
costituiva alcun pericolo per gli altri e per sé, ma che, semmai, aveva bisogno di aiuto e
che invece si è trovato a fronteggiare le percosse di quattro adulti in divisa e in servizio.
Questa è la difesa del diritto. Il diritto di avere verità e giustizia, il diritto che un ragazzo
di quell'età (dunque maggiorenne) possa anche camminare per strada alle cinque della
mattina senza timore di incontrare una pattuglia della polizia solo perché ha dimenticato i
documenti a casa o perché ha fumato dell'erba o ha preso un acido, ma non per questo è
un delinquente.
Sarebbe troppo pretendere dal capo della procura le scuse formali in primo luogo nei
confronti della famiglia Aldrovandi e in secondo luogo della stampa locale. Si spera,
almeno, che quanto accaduto non sia il segno di una frattura interna alla stessa procura
di cui, francamente, questa città non ha bisogno per i vari fronti giudiziari aperti che
attende giustizia e verità non solo sul caso Aldrovandi (asilo di via del Salice, processo
Solvay per citarne solo due dei più importanti).