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Florestano Vancini, spettatore 'semplice', quattro anni dopo

18-09-2012 / A parer mio

di Maria Cristina Nascosi Sandri

Siamo nel pieno dei festeggiamenti per i 100 anni dalla nascita di Michelangelo Antonioni, ma, per un attimo, forse, val la pena di soffermarsi a ricordare che nella notte tra il 17 ed il 18 settembre del 2008, c'ha lasciato un altro Nostro ottimo regista, Florestano Vancini, classe 1926, un altro innamorato sicuramente al pari di Antonioni, della 'sua' Ferrara dove, come lui, ha voluto ritornare alla fine del suo viaggio terreno.
E con una pellicola su Ferrara Florestano ha voluto concludere pure la sua vicenda di cineasta, asserendo, già mentre lo girava, che questo sarebbe stato il suo ultimo film: fu con E ridendo l'uccise, il Rinascimento ferrarese raccontato da un buffone di corte, tramite i suoi occhi, più che con le sue parole.
Florestano Vancini con esso ci fa indietreggiare al '500 ferrarese, negli àmbiti della corte estense, all'indomani della morte di Ercole I ed in piena faida tra fratelli ma anche fuori dalla corte, di là dal sontuoso Palazzo Ducale, tra la plebe.
Interpretato quasi solo da giovani attori, girato tra Tivoli e i boschi jugoslavi, il film si avvale delle musiche di Ennio Morricone - suo partner artistico anche quando girò per la TV la seconda serie de La Piovra, a metà anni Ottanta - e della fotografia di Maurizio Calvesi; come per La lunga notte del '43 ( liberamente tratto - come volle fosse sottolineato nei titoli lo stesso Giorgio Bassani - da una delle Cinque storie ferraresi ), le locations non poterono essere ferraresi: Vancini non ritrovava più nella sua Ferrara di oggi neppure lo spirito del suo periodo più aulico, quello rinascimentale, quello che l'aveva fatta divenire la prima città moderna d'Europa, grazie alle sue vie rossettiane lunghe e diritte, come le aveva definite il Burckhardt.
Del resto, come è ben noto, anche Corso Roma, l'odierna Martiri della Libertà, era stata tutta ricostruita negli studi di Cinecittà, a Roma, per La lunga notte del '43: le proporzioni saltano subito all'occhio, visionando lo splendido testo filmico in b/n.
Ma questo nulla toglie alla bellezza ed al valore di quel suo esordio cinematografico, 'complice' ed aiuto-regista l'amico di sempre, l'altro ferrarese Renzo Ragazzi, recentemente scomparso, che - come ha ricordato Gian Luigi Rondi alla Festa del Cinema di Roma - venne premiato alla XXI Mostra Internazionale del Cinema di Venezia con il premio riservato all'Opera Prima ed il Nastro d'Argento nel 1961, uno dei premi più 'antichi e prestigiosi', attribuito dal SNGCI, il Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani.
Ed ancora, nel ricordare Florestano, Rondi ha soggiunto:
" (…Vancini ha rappresentato) poi, con un linguaggio realista che abilmente evocava le retate fasciste nelle piazze, la folla ansiosa per le strade, quei cinematografi di provincia con i film di Lilia Silvi e, soprattutto, quelle riunioni durante il coprifuoco in una città immersa in una coltre funerea grazie anche a una fotografia lugubre e nebbiosa di Carlo Di Palma, lividamente in contrasto con il bianco patinato delle scene ambientate, nel finale, al presente. Uno stile che già annunciava uno degli autori maggiori del nostro cinema e che, saldo, vivido, coerente, avremmo visto in seguito farsi anche più meditato e perfetto".
La Storia, dunque, e più che mai la 'Sua Storia di casa', l'ha sempre fatta da padrona per il regista e lo farà fino alla fine della sua carriera, quella stessa storia - amore della sua vita - riportata, seppure in varie vicende anche non locali, nelle sue opere.
" Se non avessi fatto il regista avrei fatto lo storico".
Questa è stata la frase che ha pronunciato, tra le altre, Florestano Vancini nella mattinata del 16 maggio del 2008, quando, pochi mesi prima della morte, ricevette dall'Università di Ferrara la laurea honoris causa in Filosofia.
Ferrara, qualche volta un po' smemore verso i 'suoi figli più grandi', l'aveva, per fortuna, dunque, celebrato 'un attimo prima che fosse troppo tardi', con grande affetto e riconoscenza - due cifre che ben più si attagliano all'animo ferrarese più autentico.
L'amore per la Storia, forse più grande di quello per il cinema, ma sempre viscerale, era stato dichiarato anche nella sua lento doctoralis che aveva seguìto la consegna del diploma di laurea da parte del rettore Patrizio Bianchi, non a caso intitolata "Pro Domo mea: la storia come passione civile".
E viscerale, spontaneo rimarrà Vancini fino alla fine.
Nell'ultimo libro scritto su di lui da Valeria Napolitano per i tipi della Liguori editore, Florestano Vancini Intervista a un maestro del cinema con la prefazione di Jean A. Gili, uno dei massimi critici francesi esperti di cinema, direttore del Centro di studi di ricerca sulla storia e l'estetica del cinema, si può leggere:
«Nonostante l'età vado al cinema con un atteggiamento molto semplice, direi quasi istintivo. Certo, presto sempre attenzione alle modalità in cui un film è girato, chiedendomi se in tale scena c'è un piano sequenza, se e perché un primo piano è fatto in un certo modo. Contemporaneamente, però, se il film mi coinvolge non penso troppo al lato tecnico, al contrario quasi me ne dimentico.
Sono come uno spettatore semplice, e in quanto tale devo credere che quello che vedo sullo schermo sta accadendo, in quel momento. Giunto a un tale livello di partecipazione, mi dico che il film mi è piaciuto. Poi, certo, posso ragionarci su, ma solo in un secondo momento: prima ho bisogno di credere che tutto quello che si svolge sullo schermo è vero, sta realmente accadendo. Si tratta forse di un ragionamento semplicistico, ma credo che la forza del cinema consista proprio in questa sua capacità di ingannarti, di coinvolgerti totalmente. Da qui nasce l'emozione, è questo che cerco ancora oggi».

Nella foto: Due giovanissimi Florestano Vancini ed Adolfo Baruffi, poco più che ventenni, mentre girano Amanti senza fortuna, nel 1949.